La seconda vita di Paula Cooper l’assassina che doveva morire

Condannata alla pena capitale per un omicidio compiuto da adolescente, è stata 27 anni nel braccio della morte Un cambio nella legge, una campagna internazionale e la buona condotta le regalano una seconda possibilità
Condannata alla pena capitale per un omicidio compiuto da adolescente, è stata 27 anni nel braccio della morte Un cambio nella legge, una campagna internazionale e la buona condotta le regalano una seconda possibilità

Con 75 dollari in tasca, un abito di seconda mano addosso e il sangue della donna che lei uccise con 33 pugnalate al torace stampato nella memoria, la bambina che doveva morire è da ieri sera una donna libera che deve imparare a vivere. Ventisette anni or sono, quando non aveva ancora quindici anni, Paula Cooper fu condannata alla siringa dal tribunale di Lake County, nell’Indiana, e rinchiusa del braccio della morte ad attendere l’esecuzione. Era l’11 luglio del 1986 e Paula divenne la persona più giovane in attesa del boia. La prima e unica “Dead Girl Walking”.
Sul suo caso e sulla colpevolezza di Paula, non ci potevano essere dubbi. Due anni prima, nel maggio del 1985, lei, che del suo piccolo branco di ragazzine era la più intelligente, la più forte, la “lupa alfa”, si era fatta ricevere da una vecchina con i capelli azzurrini che sembrava uscita da un libro di favole. Si chiamava Ruth Pelke e a 78 anni, dopo una vita da maestra nelle scuole pubbliche, aveva dedicato la vecchiaia alla lettura e all’insegnamento delle Sacre Scritture. Quando vide Paula, seguita da Karen, April e Denise, la più piccola ad appena tredici anni, suonare alla porta chiedendo di studiare con lei la Bibbia e sfuggire alla crudeltà del ghetto di Gary, sicuramente sentì la speranza della propria missione.
Mezz’ora dopo, Ruth Pelke era un cadavere trafitto da 33 colpi inflitti con un coltello da macellaio. Uno sferrato con tale violenza da attraversarle il torace gracilino e lasciare una tacca profonda nel parquet.
Paula confessò di essere stata lei a colpire la vecchina dai capelli azzurrini, soltanto lei, e di averlo fatto per rapina. Dalla casa dell’insegnante di religione, le quattro ragazzine avevano portato via poche carabattole, cornicette d’argento, qualche spilla di bigiotteria e un totale in contanti di dollari 10.
Il magistrato della pubblica accusa non dovette faticare molto per convincere la giuria della sua colpevolezza. Nè il giudice, James C. Kimbrough dovette fare altro che guardare il codice penale dell’Indiana per scoprire che in quello Stato la legge permetteva la condanna a morte e l’esecuzione di chi avesse compiuto dieci anni.
Con i suoi quindici, Paula era ben oltre la soglia.
E invece fu proprio lei, con quella condanna a morte giudiziariamente inappellabile e umanamente insopportabile, a costringere uno Stato, una nazione, la magistratura ai massimi livelli a guardare negli occhi una legislazione che permetteva di mettere a morte bambini e poco più che bambini.
Non furono neppure la mobilitazione prevedibile delle organizzazioni contro la pena capitale, poi l’interessamento di Papa Wojtyla, attraverso un sacerdote italiano di Campobasso, don Vito Bracone, che scrisse al governatore dell’Indiana a smuovere e commuovere. In molte altre occasioni, come nella vicenda di Joe O’Donnel in Virginia, il Vaticano sarebbe intervenuto senza successo per chiedere clemenza.
Contribuì molto anche il comportamento di Paula in carcere.
Ieri, quando è uscita dalla prigione di Rockville, in Indiana, la sua scheda personale aveva annotato 23 violazioni minori dei regolamenti in un quarto di secolo dietro le sbarre. Sono molti i casi di criminali violenti, di serial killer, di detenuti in attesa del boia che scoprono vocazioni religiose, che si trasformano in consiglieri e guide spirituali per i più giovani, senza convincere giudici e governatori a commutare la pena. Paula Cooper non aveva neppure mai chiesto nulla, dopo la confessione, che non ritrattò mai, e la condanna. «Il carcere serve a riabilitare soltanto coloro che si vogliono riabilitare » disse in un’intervista alla network CBS.
I nipoti della insegnante coi capelli turchini l’avevano pubblicamente perdonata.
Fu la Corte Suprema dell’Indiana a smuovere il macigno della legge. Per l’intervento di Amnesty International, che aveva portato il caso di Paula davanti a quella magistratura, mentre volavano le due milioni di firme di cittadini italiani raccolte da don Bracone, la Corte sentenziò nel 1989 che Paula Cooper non poteva essere messa a morte e la sua condanna doveva essere tramutata in 60 anni di carcere.
Sarebbero trascorsi altri sedici anni, fino al 2005, per arrivare a una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, dunque valida per tutti gli Stati, che vieta l’esecuzione di chi abbia commesso il reato prima della maggiore età, i 18anni.
E’ uscita per buona condotta, con i 75 dollari d’ordinanza previsti dalla legge e abiti regalati di seconda mano, perchè quelli che indossava a 16 anni non vestono più una donna di 43. Paula si è laureata studiando in carcere, con un titolo quadriennale in discipline umanistiche e una sotto-specializzazione in psicologia. Una foto la mostra raggiante, con la toga nera sulle spalle e il tocco in testa mentre riceve la laurea. Gliela porge, mentre le stringe la mano nella cerimonia, la preside della facoltà di studi umanistici, un’anziana insegnante molto più piccola di lei, con i capelli lievemente azzurri e con le spalle graciline sotto la toga. Forse le vecchie insegnanti sono come i vecchi soldati. Non muoiono davvero mai, fino a quando ci saranno studenti e scolari.

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