CANNES. Claude Lanzmann è nel cinema francese un’istituzione: regista, scrittore, giornalista, direttore oggi della rivista Temps moderne, tende a rappresentarsi, almeno da Shoah in poi, come il solo a avere il diritto di parlare dell’Olocausto. Non ammette contraddittori, repliche, punti di vista diversi meno che mai critiche a sé stesso o a Israele, di cui è assoluto sostenitore appoggiando le posizioni politiche più a destra.
CANNES. Claude Lanzmann è nel cinema francese un’istituzione: regista, scrittore, giornalista, direttore oggi della rivista Temps moderne, tende a rappresentarsi, almeno da Shoah in poi, come il solo a avere il diritto di parlare dell’Olocausto. Non ammette contraddittori, repliche, punti di vista diversi meno che mai critiche a sé stesso o a Israele, di cui è assoluto sostenitore appoggiando le posizioni politiche più a destra. Qualche anno fa fu lui a lanciare un feroce attacco contro Route 181, il film di Eyal Sivan e Michel Khleifi che ripercorreva la nascita di Israele e la linea mai rispettata che avrebbe dovuto dividere i due stati, Palestina e Israele appunto, utilizzando come fondamento alla sua critica – anzi alla proposta di vietarne la visione, l’unico che difese il film con altrettanta durezza è stato JL Godard – una scena a chiusura del racconto di un barbiere sulla Nahkba, la deportazione dei palestinesi, con dei binari morti. E per spiegare a che punto Lanzmann impera, agli occhi di molti la scena era sbagliata solo perché non si doveva provocarne l’ira.
È indubbio che Shoah costituisce un’opera monumentale sull’Olocausto ma è anche vero che questo sua esuberanza egotica condiziona, e non sempre al positivo, i suoi film. È un cinema autoritario quello di Lanzmann, il suo punto di vista o lo si assume oppure si diventa dei nemici.
Le Derneier des injuste, fuori concorso, con l’aura delle grandi occasioni, presenti il ministro della cultura francese, Aurélie Filippetti, e la First Lady Valerie Trierweile, compagna di Hollande, è costruito su una lunga conversazione – intervista che Lanzmann ha realizzato a Roma, nel 1975 (infatti è in 16 millimetri) con Benjamin Murmelstein, il rabbino che dal 44 è stato il responsabile del Consiglio ebraico nel ghetto di Terezina, la città che i nazisti presentarono come un regalo di Hitler agli ebrei, mentre era solo l’ennesima macchina dello sterminio.Theresienstadt, 60 kilometri da Praga, nella Cecoslovacchia occupata dai tedeschi, era un’antica fortezza costruita nel XVIII secolo dall’imperatore Giuseppe II, Adolf Eichmann la trasformò nel 1941 in un «ghetto modello». Anche qui, come già in Polonia, i nazisti imposero la creazione di un Consiglio ebraico, che doveva far regnare l’ordine, e compilare gli elenchi dei deportati nei campi di sterminio. Un paradosso crudele. Molti presidenti dei Consigli, ruolo riservato ai più anziani della comunità, vennero deportati a loro volta, uccisi o si suicidarono come Jacob Edelstein, morto a Auschwitz, e Paul Eppstein, ucciso con un colpo in testa, i due presidenti che a Terezina avevano preceduto Murmelstein. Quest’ultimo invece è sopravvissuto, e alla fine della guerra è stato processato per collaborazionismo, cosa che ha determinato l’esilio romano e la scelta di non andare mai in Israele pur desiderandolo, come racconta a Lanzmann.
Nel 61 Murmelstein ha scritto un libro, in italiano, Terezin, il ghetto modello di Eichmann in cui racconta le vittime e le loro sofferenze. Non accade lo stesso nell’incontro con Lanzmann, che appare più come un’autodifesa. A partire dalle sue parole, il regista cerca le tracce di quella memoria nei luoghi di cui parla allora oggi: i binari della stazione di Nisko in Polonia, Terezina, Vienna dove Murmelstein dal ’38, dopo l’annessione dell’Austria, ha lavorato nell’ufficio dell’emigrazione forzata degli ebrei, a stretto contatto con Eichmann, organizzando la partenza di centinaia di migliaia di persone che per fuggire rinunciavano a tutto.
E se la questione dei Consigli ebraici è molto complessa, e piena di chiaroscuri – la critica più netta è venuta dalla filosofa Hannah Arendt, liquidata nel film con un certo disprezzo da Murmelstein e, se pure non direttamente da Lanzmann -, qui appare come un tassello, importante ma non l’unico, di una più generale investigazione sul potere. Le sue relazioni, i compromessi «necessari», i terreni di intesa, fino a che punto è lecito spingersi per «fare del bene». «Si sentiva importante, le piaceva avere un potere?» chiede a Murmelstein Lanzmann, e l’uomo con esitazione ammette di sì, perché gli dava una possibilità d’azione. Senza giudicare, perché sarebbe assurdo, la Storia è fatta anche di zone ambigue e di incastri sfuggenti.
Arendt nella sua critica ai consigli ebraici diceva … Ma la «banalità del male», con cui si riferisce a Eichmann, il ragioniere del genocidio, e che Murmnelstein bolla come «ingenua» non è certo – e lui lo sa bene – un giudizio sull’intelligenza dell’uomo quanto una riflessione sul rapporto tra responsabilità individuale e sistema: il nazismo sarebbe stato lo stesso se non avesse avuto un appoggio collettivo? Lanzmann si pone lo stesso interrogativo ma da una prospettiva rovesciata: la responsabilità individuale diviene il terreno di confronto del potere al cui interno ricavarsi degli spazi malgrado il potere stesso, malgrado la situazione.
L’orizzonte «possibile» della parola viene però chiuso dal regista: al flusso del rabbino si oppongono le sue dissertazioni, la linea da seguire, nella quale noi spettatori non abbiamo altri margini. La sua presenza deborda, la sua parola è la sola definitiva.
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