Intervista a Gloria Rolando, film-maker che lavora da anni sulla cultura nera dell’isola e regista del documentario «1912, voces para un silencio». Dal ’59 il governo castrista ha «combattuto e combatte il razzismo» e «ha fatto tanto per abbattere ogni forma di discriminazione». Ma «eliminati nel campo giuridico-legialativo e in quelli politico e del lavoro, i pregiudizi razziali sono rimasti nella testa dei cubani».
Intervista a Gloria Rolando, film-maker che lavora da anni sulla cultura nera dell’isola e regista del documentario «1912, voces para un silencio». Dal ’59 il governo castrista ha «combattuto e combatte il razzismo» e «ha fatto tanto per abbattere ogni forma di discriminazione». Ma «eliminati nel campo giuridico-legialativo e in quelli politico e del lavoro, i pregiudizi razziali sono rimasti nella testa dei cubani».
L’AVANA. Uno degli esercizi più complicati e ingrati a cui si vedono costretti i giornalisti e gli specialisti in problemi della politica e dell’economia cubane, è fare predizioni sulle ragioni occulte che stanno dietro – o sotto – ciò che succede o succederà nel paese. Tuttavia non sembra che ne siano dispiaciuti: si direbbe anzi che in qualche misura gradiscano questa pratica delfica di supporre, a partire dal poco che è visibile, quale sia il resto che resta invisibile o semplicemente imprevedibile nella densa e opaca politica economica e sociale dell’isola dei Caraibi la cui realtà non cessa di attrarre la stampa internazionale.
I più recenti avvenimenti registrati a Cuba – diciamo a partire dall’annuncio della liberazione di cinquantadure prigionieri, definiti «contro-rivoluzionari» da un lato e «di coscienza» dall’altro – hanno scatenato una vera cateratta di speculazioni alimentate da fatti inattesi come l’insistente riapparizione di pubblica di Fidel Castro, dopo quattro anni di assenza per malattia; la decisione del presidente Raúl Castro di non tenere il discorso nell’anniversario del 26 luglio – considerato finora l’intervento pubblico più importante dell’anno a Cuba -; o l’annuncio presidenziale, durante l’ultima riunione dell’Assemblea nazionale (il parlamento), che si amplieranno le forme e gli ambiti del lavoro «per conto proprio» come strumento per alleggerire le difficoltà economiche e di assorbire una parte dei lavoratori statali che dovranno essere «razionalizzati» (più di un milione, ossia, un agghiacciante venti per cento della popolazione attiva del paese).
I quesiti che con più insistenza si sono posti specialisti e giornalisti – e che ripetono a chiunque possa «supporre» qualcosa di forse interessante – ruotano intorno alla possibile esistenza di una lotta per il potere o quantomeno di un orientamento economico divergente nelle alte sfere cubane (comprese le tensioni fra i fratelli Fidel e Raúl), al nuovo modello economico su cui potrebbe muoversi il paese e alla possibilità che cambiamenti economici conducano a trasformazioni politiche.
Il problema, al momento di realizzare quelle predizioni, è che per fare una somma bisogna avere i fattori relativi all’addizione e, nel caso cubano, non ci sono mai a disposizione tutte le cifre e quindi i risultati portano più a tentativi, desideri, immaginazioni che a risultati affidabili.
In questo mare di auspici ci sono, tuttavia, alcune isole visibili su cui sarebbe più realistico realizzare le operazioni di avvistamento del presente.
La più notevole delle realtà cubane è, senza dubbio, la critica situazione economica e finanziaria in cui si trova il paese, non solo a causa dell’embargo-blocco statunitense e della crisi globale ma anche, e sopratutto, per l’esaurimento o l’insostenibilità delle sua attuali strutture economiche e commerciali… che prima o poi dovranno essere modificate.
Così la decisione del governo di aprire degli spazi al lavoro privato (non si sa ancora in quali settori né in quali condizioni) risponde senza il minimo dubbio a quella congiuntura che necessita davanti agli occhi di tutti diverse trasformazioni.
Lo stesso presidente Raúl Castro ha riconosciuto, nel suo intervento più recente, che non è più possibile sostenere l’immagine (o la realtà) secondo cui Cuba è un paese dove si può vivere senza lavorare ma dove, per di più – lo ha ammesso lui stesso -, non è possibile vivere del proprio lavoro (neanche per i professionisti più qualificati), ciò che rivela l’esistenza di serie deformazioni nel sistema economico di un paese che si è dato il lusso di raggiungere il pieno impiego ma al costo della inefficienza, dell’improduttività, della creazione di posti di lavoro non necessari e, consenguentemente, del pagamento di un salario più virtuale che reale, che demotiva i salariati e obbliga molti a cercare il sostentamento attraverso le vie più tortuose che, in generale, nascono e sfociano nella corruzione, nel furto allo stato e nel mercato nero.
Risulta anche molto evidente che la politica sociale cubana, pur conservando certi standard di sicurezza sociale, ha cessato di essere «paternalista» (nel senso di una creazione dello stato) non per volontà politica ma per necessità economica. E gli effetti di questo cambio si sentono già nel settore dell’istruzione (la soppressione di borse di studio e la limitazione dell’accesso universitario, ad esempio), in quello delle pensioni (è stata aumentata di cinque anni l’età del ritiro dal lavoro) e si sentiranno presto nel terreno molto poco coltivato a Cuba delle imposte fiscali.
Per ultimo (ma non quanto a importanza), nella lista delle certezze resta il fatto che le forme di direzioni a Cuba non sono cambiate, né cambieranno in tempi brevi.
Il governo ha ammonito con estrema chiarezza che il sistema politico a partito unico e quello economico a pianificazione socialista non saranno modificati dai cambiamenti in via di adozione o dall’applicazione di misure specifiche come la liberazione dei cinquantadue prigionieri.
Ciò che risulta incontestabile, in mezzo a tante predizioni e a scarse informazioni, è che il governo cubano è impegnato a cercare delle alternative economiche capaci di puntellare le sue posizioni politiche.
Solo così si può capire perché si torni a proporre il lavoro «per conto proprio», ristabilito e al tempo stesso criticato nella decade degli anni novanta, o perché sia pianificata un’apertura turistica che prevede, oltre a sedici nuovi campi da golf e alla costruzione di punti di attracco per gli yachts, la vendita di case a stranieri, un’altra pratica degli anni novanta che era virtualmente scomparsa.
E per non essere fuori dal coro, potremmo infine chiedere agli oracoli: a che tipo di turisti saranno venduti questi prodotti? Ci sono delle carte nascoste sotto il tavolo dei rapporti fra Cuba e gli Stati uniti?
*Scrittore e giornalista cubano
** ©Ips-il manifesto
0 comments