Senza gli afro-cubani non esisterebbe Cuba. Nonostante gli sforzi della rivoluzione, il problema non è risolto
Senza gli afro-cubani non esisterebbe Cuba. Nonostante gli sforzi della rivoluzione, il problema non è risolto
L’AVANA. Il 20 maggio 1912 il Partito indipendente di colore (Pidc) si solleva in armi a Cuba. Non è un tentativo di rivolta o di colpo di stato. Ma l’estrema protesta contro l’esclusione del Pidc dalle elezioni politiche, voluta dalla maggioranza razzista del parlamento e ratificata dal presidente Gómez. La risposta del potere sarà un massacro: più di tremila i militanti neri e mulatti uccisi, molti passati per le armi dopo essersi arresi. I corpi dei leader, i mulatti Evaristo Estenoz e Pedro Ivonet (generale della guerra di liberazione contro la Spagna il secondo, ufficiale dello stato maggiore del generale Bandera, il primo) vengono esposti al pubblico nella caserma Moncada (dove nel ’53 inizierà la rivoluzione di Fidel) a Santiago di Cuba. Il massacro (appoggiato, quasi richiesto, dagli Stati uniti che in quel periodo avevano praticamente un protettorato sulla maggiore delle isole antillane) porta non solo alla sparizione di una forza politica autonoma dei cubani di colore, ma, con essa, a una decapitazione dell’intellighenzia nera e mulatta. Fino alla rivoluzione di Fidel, si possono contare sulle dita di una mano leader politici e intellettuali neri di spicco a Cuba.
Il documentario 1912, voces para un silencio (presentato di recente qui all’Avana), che la regista Gloria Rolando (nella foto) – la cui opera è rivolta a indagare le origini della cultura nera afro-cubana – ha dedicato a questo episodio della storia dei cittadini di colore, ha come sottotitolo «Le parole per dirlo». E ancor più chiaro, nella versione in inglese – presentata negli Usa – «Breaking the silence».
Quale silenzio vuoi rompere ?
Il silenzio della storia ufficiale dell’epoca , il silenzio, proseguito anche negli anni successivi, sugli obiettivi della lotta del Partito indipendente di colore – che non erano affatto il potere ai neri, bensì uguaglianza e giustizia sociale -, infine il silenzio sulla storia dei neri a Cuba. Per questa ragione quello presentato nei giorni scorsi è solo il primo documentario di un progetto di ricostruzione del massacro del 1912 che si articola in tre fasi: la prima informa sui fatti che precedono la rivolta, l’inizio della lotta dei neri per emanciparsi dalla schiavitù, i primi giornali fatti da neri, i loro leader come Antonio Maceo che comandò l’esercito ribelle, la lotta di indipendenza contro la Spagna (conclusasi nel 1898 con l’intervento degli Stati uniti) combattuta in grande maggioranza da mambí neri e mulatti che partecipavano alle operazioni da uguali ai combattenti bianchi, le aspettative che i neri nutrivano dall’esito vittorioso di tale guerra: non solo l’indipendenza, ma l’uguaglianza sociale e razziale.
Insisto, perché silenzio? Su quei fatti e sulla questione razziale a Cuba sono state formate tre commissioni, una del parlamento, una del governo e una dell’Uneac, l’Unione degli scrittori e artisti cubani
E’ vero. Ma io ho iniziato a lavorare a questo progetto nel 2003, quando sulla questione razziale a Cuba vi era una vera e propria reticenza, sia in ambito politico che intellettuale. Inoltre le commissioni a cui ti riferisci, sono sì importanti – formate in modo interdisciplinare- ma restano in ambito politico e intellettuale. Mentre nella popolazione cubana persiste una preoccupante assenza di coscienza della questione razziale, che rischia di diventare un fattore pericoloso per la stessa rivoluzione, che pur ha fatto tanto per abbattere ogni forma di discriminazione.
Eliminati nel campo giuridico-legislativo e in quello politico e del lavoro, i pregiudizi razziali sono però rimasti nella testa dei cubani, per così dire nella cultura familiare. Ancor oggi si pensa che è necessario adelantarse (portarsi avanti), in pratica di unirsi (in matrimonio o solo sessualmente) con i bianchi. Dunque che schiarendo la pelle dei propri figli si assicura loro un progresso sociale. E che restando neri di pelle si è quasi condannati a una marginalità sociale. Ripeto, questo non è la politica ufficiale e la rivoluzione ha combattuto e combatte il razzismo. Infatti nelle scuole, nel lavoro, ecc., i cittadini hanno per legge uguali possibilità. La rivoluzione ha distrutto le barriere legali e sociali razziste, ma non quelle che esistono nella testa della gente.
Esteban Morales, che ha scritto un libro (Desafíos de la problématica racial en Cuba) sostiene che «in questo paese si educano le persone a essere bianchi, in quanto essere bianchi rappresenta un vantaggio e essere neri uno svantaggio». E che quando Fidel nel 1962 dichiarò risolta la questione razziale «peccò di idealismo».
Il mio impegno va proprio in questa direzione, contribuire a una coscienza razziale. Un compito non certo facile. Il mio documentario – presentato alla Mesa redonda ( in onda in tv tutti i pomeriggi, uno spazio di analisi di questioni politiche e sociali nazionali e internazionali, ndr) – ha lo scopo di portare questo tema fuori dal dibattito intellettuale, nei cinema, in tv, nelle scuole, nelle biblioteche, insomma tra la gente, perché è a questo livello che bisogna lavorare. Ho parlato con vari spettatori, in maggioranza hanno sottolineato l’importanza di portare questo lavoro nelle scuole. Molti giovani, specialmente neri, non vanno al cinema. In questo settore della popolazione vi sono nuovi canoni di circolazione: la musica, i video – ovvero la gran parte di «cultura» che viene «consumata» – sono copiati in memorie e così circolano. Dunque ci stiamo organizzando, anche con la partecipazione di giovani rappers neri. Più difficile la penetrazione nel settore bianco della popolazione, ancor meno interessato alla questione razziale, ovviamente.
La crisi economica, sostengono analisi sociologiche, aumenta la «frattura sociale» e vede i neri sovra-rappresentati nelle situazioni di nuova povertà e marginalità (per esempio nelle carceri). E’ vero?
La popolazione nera patisce la caduta di tensione politica e la sempre maggiore spinta al consumismo. Fattori che si sommano al fatto che non vi è, nell’insegnamento e nella società, una conoscenza e un riconoscimento del contributo dei neri alla storia del paese (Ortiz diceva che senza i neri non esisterebbe Cuba). Nel mio documentario una donna si chiede: ma che hanno fatto i neri per questo paese? Al massimo si riconosce il loro contributo nello sport e nella musica. Nell’insegnamento non si parla di intellettuali neri, con l’eccezione forse di Juan Gualberto Gómez, identificato però solo come amico di José Martí. Tutto questo porta a un pericoloso abbassamento dell’autostima della popolazione di colore.
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