Sul Pd un dibattito senza rete

Non siamo messi bene. Dietro l’impasse della macchina politica si staglia il dato più evidente: il disorientamento del «paese reale». Il porcellum ha le sue buone responsabilità , ma non è dalla legge elettorale che deriva il fatto, incontestabile, che nessuna via appare convincente, men che meno risolutiva. Dominano l’insicurezza, la paura.

Non siamo messi bene. Dietro l’impasse della macchina politica si staglia il dato più evidente: il disorientamento del «paese reale». Il porcellum ha le sue buone responsabilità , ma non è dalla legge elettorale che deriva il fatto, incontestabile, che nessuna via appare convincente, men che meno risolutiva. Dominano l’insicurezza, la paura. Storie tragiche come quella di Civitanova misurano la profondità della frana. E può esserci di peggio. Errori nella costruzione del governo, figuriamoci nella scelta del nuovo inquilino del Colle, stanti gli equilibri di forza e dopo le forzature presidenzialistiche di questo settennato. CONTINUA PAGINA 15 DALLA PRIMA
Un solo esempio: che succederebbe se dei veti incrociati si avvantaggiasse un fondamentalista di questa unione europea, così com’è costituita? Quale chance di cambiamento sopravvivrebbe quanto ai fondamentali: regolazione del capitale finanziario, sovranità monetaria, politiche espansive, convergenza delle politiche fiscali, direzione pubblica degli investimenti?
Del resto, tra le due facce della medaglia c’è ben più che un legame esteriore. Il disorientamento generale ha molto a che vedere con la poca lucidità delle forze politiche – di tutte – figlia di una lunga stagione di programmata confusione, spacciata per sobrietà post-ideologica. L’adeguamento al dettame neoliberista e l’accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo hanno unificato programmi e progetti, sino all’infausto approdo del governo tecnico. Che tuttavia non è stato una novità assoluta in questa fase storica, inaugurata vent’anni fa dalle performances di Amato, Ciampi e Dini. Quando si ragiona su Grillo bisognerebbe partire proprio da qui, dallo spettacolo di un sistema politico unificato nel segno di politiche antisociali, clementi con i grandi capitali, feroci con la piccola gente. Il discorso sulla «casta» e sui suoi privilegi non è che la punta di lancia di un cospicuo arsenale di risentimenti, che ha avuto tutto il tempo e l’agio di stratificarsi. Stiamo quindi attenti. Spesso, col senno di poi, capita di stupirsi del fatto che non si siano colti in tempo reale passaggi cruciali. Ma in altri casi era difficile, oggi disponiamo di tutti gli elementi.
Ne è testimonianza la discussione che si è finalmente aperta nella sinistra. Caratterizzata, nelle sue migliori espressioni (penso anche alla memoria politica di Fabrizio Barca per un «partito nuovo»), da un respiro per buona fortuna non ristretto all’immediata attualità. E dalla consapevolezza che da una crisi come questa non si esce senza la capacità di situarla nel suo giusto contesto politico-storico. Questa discussione è appena agli inizi, speriamo si dispieghi senza strozzature. Per parte mia, mi sembra utile rilevarne l’aspetto decisivo, il fatto che – ripeto, finalmente – si cominci a discutere senza rete del Partito democratico, della sua ragion d’essere, del progetto che gli ha dato corpo. Vincenzo Vita ha scritto su queste pagine parole molto chiare e impegnative. Ha dichiarato il fallimento della miscela tra le culture di provenienza delle sue componenti, addossandogli la responsabilità di una regressione moderata. È un bilancio gravoso e forse travagliato. Che sembra confermare che, mentre un compromesso tra forze anche molto distanti tra loro è possibile e talora necessario (così nacque la nostra Costituzione), è invece impropria e sconsiderata la pretesa di fondere in un’unica forza storie e culture diverse (diverse – in questo caso – in radice, perché connesse in definitiva ai versanti opposti del rapporto sociale). Non ne sortisce una cultura nuova, nata per sintesi, ma una competizione paralizzante, o la subordinazione strutturale di una delle componenti all’altra.
Questo sul Pd è un discorso, per quanto doloroso, ineludibile, se si vuole pensare la crisi italiana (che in buona misura coincide con quella della sinistra) all’altezza della sua intensità. Che ne discende? In negativo potrebbe accadere che la presa d’atto dell’insuccesso di cui parla Vita (della sua inevitabilità) e la ricerca di una maggiore coerenza interna comportino nell’immediato un costo in termini di consistenza complessiva del partito. Il cui riorientamento (in chiave moderata o critica) potrebbe risultare inaccettabile a una o all’altra delle sue componenti. Ma può anche darsi, in positivo, che si apra una fondamentale opportunità. Che torni possibile dare al paese una forza autonoma della sinistra, un’espressione coerente dell’ampio ventaglio delle culture critiche (democratiche, costituzionali, trasformative) del mondo del lavoro (e del non-lavoro). Quella forza – diciamoci la verità – che è mancata in Italia (soprattutto in Italia, per un ben curioso contrappasso) dalla Bolognina ad oggi.
Sono molti i segnali del darsi di questa opportunità. E si moltiplicano di giorno in giorno, man mano che lo stallo del quadro politico mostra la distanza siderale tra il paese – la sua composizione sociale – e questo sistema della rappresentanza. Quindi l’impossibilità di porre rimedio alla crisi senza mutamenti profondi. Senza, in particolare, ripensare da cima a fondo le scelte istituzionali e politiche che hanno modellato il sistema esistente. Tra questi segnali spiccano, mi pare, le riflessioni affidate in questi giorni alla rete da Mario Tronti, che hanno già suscitato un’ampia discussione. Le do qui per note, limitandomi a rimarcarne due momenti: una critica severa a Napolitano (artefice di una reiterata «manovra di ostruzione» a danno del Pd), allo stesso Partito democratico (privo di antenne capaci di leggere il paese) e al movimento grillino («plebeismo nichilista» in grado di mettere a rischio la Repubblica). E una limpida indicazione del che fare – del che tentare – a sinistra. Questo nostro campo (di forze politiche, di forze sociali) si tratta, scrive Tronti, di «riorientarlo, riorganizzarlo, rimotivarlo». E per riuscirvi occorre in primo luogo evitare di snaturarsi, di subire una mutazione genetica, di «diventare un’altra cosa».
Insomma, il punto è ancora – sempre – quello. Essere, o tornare a essere, sinistra. Forza del lavoro. Forza di conflitto dalla parte del lavoro. Io penso che Tronti intenda questo e che abbia ragione. E penso anche che, in un momento così, una cosa soprattutto non si possa fare: privilegiare la retrospettiva per attestarsi in sterili recriminazioni. Attardarsi nella verifica di eventuali mutazioni già subite, o in un confronto aspro sulle scelte assunte. Oggi, al contrario, nella misura in cui sorge la coscienza degli errori compiuti, proprio di questo si tratta: di guardare avanti; di immaginare una nuova stagione di unità e di lotte; e di recuperare il senso della comune appartenenza a un vasto campo di forze che stanno nel conflitto con la consapevolezza della sua struttura fondamentale e della necessità di prendervi partito. Senza l’illusione di impossibili sintesi, e senza interdizioni contro una parte di sé e della propria stessa storia, precipitosamente rimossa. Se questa nuova pagina si aprisse, l’impasse del quadro politico prenderebbe a sciogliersi come neve al sole.

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