KAPUSCINSKI Gli ultimi giorni dell’Urss

Le fotografiescattate da Ryszard Kapuscinski nelle vie di Mosca nel 1991 sono ingrandimenti dell’inizio di quella tumultuosa mutazione genetica che trasformò l’Unione Sovietica imperiale, conformista, puritana, repressiva (Imperium come la definì lo stesso Kapuscinski nel suo celebre libroreportage) nella Russia eltsiniana: plutocratica, economicamente selvaggia, politicamente ibrida e moralmente libertina.

Le fotografiescattate da Ryszard Kapuscinski nelle vie di Mosca nel 1991 sono ingrandimenti dell’inizio di quella tumultuosa mutazione genetica che trasformò l’Unione Sovietica imperiale, conformista, puritana, repressiva (Imperium come la definì lo stesso Kapuscinski nel suo celebre libroreportage) nella Russia eltsiniana: plutocratica, economicamente selvaggia, politicamente ibrida e moralmente libertina.
Il golpe dell’agosto di quell’anno, fallito miseramente per l’inadeguatezza politica e militare dei suoi autori, patetiche marionette residuali di quella grande macchina di gestione e repressione che fu il Pcus, Partito comunista dell’Unione Sovietica, era stato un disperato tentativo di fermare la mutazione e riportare indietro le lancette della Storia verso quel «socialismo realizzato» di Leonid Breznev. Ma il golpe abortito aveva soltanto nuociuto in modo irreparabile al già malfermo potere di Mikhail Gorbaciov, umiliato fino al dileggio da Boris Eltsin.
Gli equilibri del potere a Mosca erano cambiati dopo l’agosto del 1991, ma il processo di mutazione era ripreso. Più frenetico, incontrollato di prima, e perfino con qualche vena clownesca. E, soprattutto, senza una chiara direzione di marcia, né politica, né economica. Le immagini di Kapuscinski sono una fantastica testimonianza di quel clima.
Prendiamone alcune, non a caso. La prima: due militari, uno più anziano con la classica divisa superdecorata dell’Armata Rossa, l’altro più giovane in uniforme estiva, che scortano un cosacco e un pope che regge il ritratto dello zar. Un indicibile minestrone di generi e di fedi. La seconda: una manifestazione al Bulevar Zubovskij con cartelli che inneggiano al “comunismo per i comunisti, la vita del popolo”. La terza: un manifesto che invoca Aleksandr Solzenitsyn come presidente. La quarta: una manifestazione al Gorkij Park con un inverosimile assemblaggio di stili di abbigliamento, l’apparatcik con il giaccone di finta pelle e la shapka (il colbacco di pelo), la casalinga moscovita con un basco anni Cinquanta, il bizzarro intellettuale con lunghi capelli, pizzetto, papillon e pelliccione stile emigrazione russa a Parigi anni Trenta accompagnato da signora di analoga eleganza.
Scrisse con grande efficacia Arrigo Levi, che a Mosca aveva vissuto nell’epoca del disgelo kruscioviano, in un reportage dopo il golpe: «Per le vie di Mosca spira un certo vento di follia. Non accadeva dagli anni Venti, dai tempi della Nep (Nuova Politica Economica) e dell’arte d’avanguardia; la storia russa ha sempre oscillato tra epoche di conformismo e repressione ed epoche di anarchia, di sbrigliata invenzione intellettuale e bizzarria di comportamenti… Oggi, dopo il fallimento del putsch, e dopo un inverno grigio in cui Gorbaciov era sembrato di nuovo prigioniero del partito, riaffiora, con qualche trepidazione, il filone sotterraneo, ribelle ed estroso, della cultura russa: almeno a Mosca ha contagiato anche la gente qualunque». Il brano è riportato in una raccolta di articoli di Levi, a cura dell’editore Aragno, di prossima pubblicazione.
Anche a me era capitato di visitare Mosca qualche mese dopo il golpe e di restare impressionato dal clima di anarchia e di astiosa divisione sociale. Dalla finestra del mio albergo, uno dei primi a ispirarsi a canoni occidentali e dunque stupefacente per l’ex corrispondente dell’era brezneviana abituato ai cupi Inturist pieni di spie e di faccendieri, osservavo ogni mattina l’interminabile fila di povera gente che vendeva inutili, misere cose o semplicemente chiedeva l’elemosina, creando una catena umana che avvolgeva l’enorme edificio del Detskij Mir (“Il mondo dei bambini”, storico negozio di giocattoli). Ma poco più in là, su quella che si chiamava Ulitsa Gorkovo, ribattezzata con il nome prerivoluzionario di Ulitsa Tverskaja, c’era la fila davanti a negozi che vendevano profumi di grandi marche francesi, a prezzi inavvicinabili se non per una pluto-nomenklatura ancora semiclandestina.
Quelle insanabili contraddizioni finirono per portare alla definitiva consunzione di Gorbaciov, asserragliato al Cremlino fino all’ammainabandiera dell’ultimo giorno dell’anno, e alla fine del partito-Stato con conseguente dissoluzione dell’Imperium. Kapuscinski, che di regimi morti aveva una grande esperienza (aveva già raccontato mirabilmente la caduta dello scià e l’avvento di Khomeini in Iran), aveva fiutato questa implosione viaggiando sulla ferrovia transiberiana e sostando nelle città e nei villaggi sperduti: «Per regnare in un paese così sconfinato si è dovuto creare uno Stato sconfinato. Questo ha sprofondato i russi in una contraddizione. Per mantenere i grandi spazi il russo deve mantenere un grande Stato e per mantenerlo spende tutta la sua energia, che poi non gli basta più per il resto: organizzazione, economia eccetera. Spreme tutte le sue energie per lo Stato, che lo schiavizza e lo opprime». Molti anni prima, in un libro profetico (L’Empire éclaté), la sovietologa francese Hélène Carrère d’Encausse, madre di quel Emmanuel Carrère che ha romanzato la fortunata biografia di Limonov, aveva sostenuto, contro lo scetticismo dei cremlinologi, che un impero con oltre centoventi nazionalità non poteva non implodere.
Succeduto a Gorbaciov, Boris Eltsin, gaudente e bevitore, perfetta incarnazione del bizzarro spirito russo e dell’inclinazione agli eccessi (anche per la sua sobrietà, invece, Gorbaciov non fu mai amato dall’uomo della strada), portò alle estreme conseguenze l’anarchia economica (favorendo la nascita e la prosperità degli oligarchi) e l’instabilità politica. Ryszard Kapuscinski aveva, ancora una volta, colto perfettamente i limiti e i rischi dell’avventurismo eltsiniano. Nel 1993 scriveva, sempre in
Imperium: «Di perestrojka e glasnost non parla più nessuno, il partito democratico, così attivo nella lotta al comunismo, è stato relegato ai margini della scena politica e lì resta, a metà tra lo sbando e l’oblio. In genere oggi in Russia si parla molto meno di democrazia… Corre un clima propizio al rafforzamento di metodi di governi autoritari, favorevole a ogni forma di dittatura». Sei anni dopo arrivò Vladimir Putin.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password