UNA PICCOLA DONNA SCONFITTA DAL MONDO

Nel libro-monologo di Aldo Nove “Mi chiamo…” la storia di Mia Martini

Nel libro-monologo di Aldo Nove “Mi chiamo…” la storia di Mia Martini

«È stata colpa di quella lì». Una frase sospesa, detta da nessuno in particolare: una condanna. Dopo un concerto a Cava dei Tirreni, la macchina dei musicisti era sbandata nella notte ed era finita contro un muro. Due di loro erano morti sul colpo. «E’ stata colpa di quella lì», perché dopo aver cantato aveva deciso di tornare in albergo a riposare. Sarebbe partita il giorno dopo, da sola. Dal giorno dopo Mia Martini diventa la strega, la iettatrice, l’untore. In un monologo intitolato Mi chiamo…, pubblicato da Skyra e immaginato per il teatro, Aldo Nove si assume la voce della cantante, e racconta. Dalle sue ultime disperate ore — “una bambina che piange nella notte” — per spirali di angoscia, ricordi di infanzia, una carriera che ha tanti inizi e tante fini, ma un punto preciso e immendicabile in cui tutto cambia.
Quel giorno in cui il suo nome diventa per sempre impronunciabile, la sua presenza impossibile. E lei inizia a sparire. Mia Martini era nata a Bagnara Calabra, e aveva gli occhi di una donna del sud, e la voce più bella di tutte. La sua voce luminosa. Bertè, si chiamava, Domenica Bertè. Erano quattro sorelle, e tra queste Loredana. Loredana la bella. Domenica era strana, non sarebbe mai stata come le altre cantanti, né abbastanza bella né abbastanza uguale. Anche questa sarebbe divenuta una colpa. Il padre se n’era andato, la madre le aveva cresciute da sola. Il padre, la sua prima ferita.
E poi gli uomini, tutti gli uomini che ha amato male, da cui è stata amata sgarbatamente. L’amore non le veniva facile, anche se — o forse proprio per questo — ha cantato canzoni d’amore struggenti. Scriverà una canzone anche su un padre, “Padre davvero”. E persino di questo non verrà perdonata. «Non è una canzone, è un parricidio», scrissero. Era la storia di un ragazzo che non riesce a perdonare il modo in cui suo padre l’aveva giudicato. Quando la piccola Domenica aveva annunciato a suo padre che avrebbe voluto fare la cantante, lui le aveva risposto che fare la mignotta sarebbe stata la stessa cosa. Ma la madre la asseconda. La porta a Milano e al primo provino i produttori riconoscono subito il suo talento. Canta, vince festival, guadagna i primi soldi. Gira vestita da hippy con una bombetta in testa, l’amico Renato Zero, la sorella strafiga. La prima volta che la sua carriera finisce è in Sardegna, all’uscita di un locale. Viene arrestata, poco più che ventenne, per qualche grammo di hashish in tasca. Rimane in galera alcuni mesi. Anche lì canta, canta per le sue compagne di cella. Quando esce diventa Mia, Mia Martini come l’aperitivo italiano più famoso del mondo.
E’ l’epoca di “Piccolo Uomo” e poi “Minuetto”. Charles Aznavour la vuole con sé per un giro di concerti in Europa. E’ un trionfo e lui le chiede di continuare, di seguirlo per il mondo. Mia Martini dice no, voglio tornare in Italia. Ma l’Italia non sa che farsene della sua bravura, e la mette di nuovo in un angolo. Muore nel 1995, da sola. Trovano il suo corpo soltanto un paio di giorni più tardi.
Aldo Nove, fin dall’esordio con Woobinda, ha raccontato questo paese con un’esattezza orrorifica: l’analfabetismo progressivo, la mancanza di prospettiva. Ha centrato la catastrofe grazie alla visionarietà che è dono dei poeti. Qualche anno fa Aldo Nove ha scritto un libro, una raccolta di interviste a giovani precari, che si intitolava
Mi chiamo Roberta ho quarant’anni, guadagno 250 euro al mese…
Fu uno dei primi ad accorgersi di cosa stava accadendo, e a raccontare. E’ curioso che abbia scelto per questo monologo un titolo che riecheggia quello lì. Sembra dire che qualcosa lega il destino della cantante a quello di questo paese. Un piccola epopea di sconfitti, da testimoniare attraverso le parole. Come il cardillo della Ortese, come i ragazzini della Morante, Mia Martini è una vittima sacrificale di un mondo idiota, isterico, irrazionale. La nostra cattiva coscienza, la spazzatura da nascondere sotto il tappeto dopo aver banchettato. Aldo Nove le dà un linguaggio fanciullo, quasi creaturale. La volgarità e la violenza, le parole laide e mimetiche dei suoi primi libri, hanno lasciato il posto a una lingua leggerissima, quasi infantile. Il canto sommesso, «le parole dette a bassa voce, tra le lenzuola, di notte» per allontanare i fantasmi. Qualcosa da cui ripartire.

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