LE ILLUSIONI PERDUTE DI UN RIVOLUZIONARIO

Un ex partigiano è il protagonista del nuovo romanzo di Varesi

Un ex partigiano è il protagonista del nuovo romanzo di Varesi

«Il fatto è che esistono solo rivoluzioni di pancia, e non di idee. Le rivoluzioni sono figlie della fame e delle botte. Quand’è così, allora tornano buoni gli ideali». È una donna, una moglie, dopo trentacinque anni di brucianti delusioni, a insinuare nell’animo del rivoluzionario il dubbio più tremendo e disperante: che il tradimento non venga dagli uomini, ma dalla speranza stessa. Che la rivoluzione sia solo una utile jacquerie su cui qualcuno mette il cappello di un’ideologia, per toglierglielo quando non serve più.
Ma Oscar Montuschi, protagonista del romanzo Il Rivoluzionario di Valerio Varesi, non cede. Oscar è un uomo di marmo, le delusioni lo scheggiano ma non lo sbriciolano. Partigiano, comunista, dirigente cooperativo, disciplinato, idealista, nella Bologna del subito-dopo-guerra non è tra quelli che “continuano a sparare” intrappolati dallo strascico dell’odio. Ma è tra quelli che sentono subito il morso della “Resistenza tradita”, delle promesse di giustizia e di libertà nutrite in montagna e non mantenute in città, della normalizzazione togliattiana, del ritorno beffardo e arrogante al potere del nemico che si credeva sconfitto.
Allenato dalla sua ormai lunga esperienza di scrittore noir, uno dei capofila della scuola giallista bolognese, Varesi sa bene cos’è un movente. Sa che la spinta che muove le azioni degli uomini non è mai solo una contingenza, o un dato di carattere. Il suo Oscar non è una pedina ingenua nel gioco della storia più grande di lui. Non è il generoso ingenuo cavallo Gondrano della Fattoria degli animali di Orwell, lo stakanovista che si affida anima e corpo alla causa, e se la causa stenta allora vuol dire che «lavorerò di più». Nel Pci della “doppiezza”, Oscar non si fa molte illusioni: vede la realtà che sovrasta le speranze, capisce la realpolitik anche se non l’accetta, legge amaramente i compromessi, le concessioni, il ripiegamento dei dirigenti, si rende conto che non si tratta di dissimulare in attesa dell’ora X, che il partito ha scelto, o subìto, un’altra strada.
Ma è un uomo di marmo, e resiste, difeso dalla corazza della sua morale, della sua idea di giustizia e riscatto. Cerca di seguire le curve della storia: non sogna più la lotta armata, trasferisce la speranza in un ribaltamento sociale nella sfida al capitalismo sul suo terreno, con l’economia cooperativa che prima o poi, ne è certo, si dimostrerà vincente.
Una fiducia hegeliana nella storia come inevitabile dialettica affermazione dello spirito, in forma di giustizia sociale. A dispetto della storia stessa, che si incarica, ripetutamente, implacabilmente, di smentirlo con la repressione poliziesca che incombe, gli eccidi invendicati di operai, la destalinizzazione bruciante, l’imborghesimento dei dirigenti, Oscar protegge la sua fiducia nella palingenesi come si tiene lucida una lama che prima o poi servirà. Ma gli anni e i decenni passano, e anche le strategie alternative in cui il rivoluzionario senza rivoluzione si rifugia per ritrovare respiro, gli si rivoltano contro. Espatriato in Urss, ne scopre la glaciale struttura di sospetto e controllo. Il sistema cooperativo adotta i metodi e i sistemi del capitalismo. L’Italia è persa, soffocante: ma forse il mondo ancora no, e Oscar si getta anima e corpo nella catarsi terzomondista, nella lotta di liberazione dei popoli coloniali, prova a riaccendere nel Mozambico in rivolta contro i portoghesi la fiamma partigiana, sperando che la seconda volta non vada come la prima, e invece no, anche quella resistenza esotica frana nel suo dopoguerra di denaro onnipotente, rivalità politiche, appetiti speculativi.
Ma Oscar è un uomo di marmo. Inghiotte amaro, archivia la nuova delusione bruciante. Di nuovo in Italia, dove le Br capitalizzano in incubo sanguinario ed eterodiretto la frustrazione della rivoluzione negata, dove le bombe fasciste sembrano azzerare ogni conto in sospeso tra la giustizia e la storia, il Rivoluzionario non si lascia ancora travolgere. Ormai anziano, pronto a uscire di scena, afferra l’intima verità, beffarda, della incommensurabilità fra storia e biografia. Capisce che non basta avere vent’anni quando il mondo sembra traballare perché la rivoluzione sia matura. E di nuovo è la moglie Italina, coscienza discreta del rivoluzionario a una dimensione, che trova le parole per dirlo: «Ma no, non ci siamo illusi. È la vita che è troppo breve».

 

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