Il libro di Marco Revelli «Finale di partito», pubblicato da Einaudi, affronta la disaffezione verso le forme di rappresentanza, evitando il ritornello dei cattivi educatori. La crisi è un rovesciamento positivo, trasformando tutti in «fuori casta»
Il libro di Marco Revelli «Finale di partito», pubblicato da Einaudi, affronta la disaffezione verso le forme di rappresentanza, evitando il ritornello dei cattivi educatori. La crisi è un rovesciamento positivo, trasformando tutti in «fuori casta»
Sulla crisi della rappresentanza e sulla «disaffezione» sempre più estesa e profonda nei confronti dei partiti politici sono stati versati fiumi di inchiostro e di parole, fino ad inventare quell’«antipolitica» cui si potrebbe riconoscere un senso logico solo se con questo termine si intendesse designare un ritrarsi singolare e quasi ascetico dalla vita collettiva.
Ma non è certo a questo che si riferiscono i custodi della cosiddetta «cultura di governo». Bensì a una sorta di psicopatologia di massa che si sarebbe diffusa tra i cittadini, lasciati troppo esposti alle intemperie e alle intemperanze di cattivi educatori. Ci risiamo con i cattivi maestri! Che tramino nell’ombra per abbattere le istituzioni o che condonino evasioni ed abusi dalla luce della ribalta governativa restano la più comoda e semplice delle spiegazioni. Se patologia vi è stata, inoculata dal cattivo esempio, allora potrà essere curata col vaccino della «serietà» e della creanza. La buona politica, che si autocertifica tale, sconfiggerà alla fine quella cattiva, nonché il male epidemico dell’antipolitica e dell’irresponsabilità.
In questo mare di scemenze gonfiato dai venti della campagna elettorale è di grandissima consolazione imbattersi in un libro che la crisi della rappresentanza e la palese inadeguatezza della forma partito le prende tremendamente sul serio. Si tratta di un breve ma denso testo di Marco Revelli, che ha fra l’altro il merito di riassumere con chiarezza i punti salienti del dibattito teorico novecentesco sulle aporie dell’organizzazione politica e dei dispositivi della rappresentanza. Il titolo stesso ha il tono di una conclusione senza equivoci: Finale di partito (Einaudi, pp.140, euro 10).
Acrobazie dell’economia
Sgomberando il campo da psicologismi e filosofie della storia l’autore vede nei grandi partiti di massa del Novecento, soprattutto quelli europei, lo specchio piuttosto fedele dell’organizzazione produttiva dell’epoca: la grande industria fordista. L’una e gli altri concepiti per combinare in un disegno operativo la forza di innumerevoli singoli, coordinarne i movimenti, articolarne le funzioni, moltiplicarne la potenza.
Piramidale, verticistica, gerarchizzata, tra élites dirigenti, quadri intermedi e massa operaia, la grande industria da una parte e la burocrazia formalizzata della dottrina weberiana dall’altra, fanno da modello al partito, perfino e soprattutto a quello che si pone come obiettivo finale l’estinzione dello stato e del lavoro salariato. Dando così ragione al sociologo Roberto Michels che all’inizio del secolo scorso aveva pronosticato. «Chi dice organizzazione, dice oligarchia», sancendo un limite, prossimo all’impraticabilità, della democrazia. La rivoluzione, insomma, prendeva forma come rovesciamento, di segno contrario ma speculare, dell’organizzazione produttiva capitalistica. Non senza dar prova, con questo, di una certa razionalità pratica ed efficienza operativa.
Stando così le cose, le profonde trasformazioni del paradigma produttivo, la contrazione quantitativa della base operaia, il moltiplicarsi disomogeneo delle figure messe a lavoro, il decentramento, la flessibilità, le esternalizzazioni, l’inclusione nel processo di produzione di facoltà e inclinazioni individuali che ne erano state tenute fuori, non potevano non investire i comportamenti e le soggettività che avevano alimentato e sostenuto le grandi organizzazioni politiche, financo le forme di vita che si erano riconosciute in quelle strutture o ad esse affidate.
Le differenziazioni, le intermittenze, le singolarità, gli scarti e gli smottamenti che hanno attraversato e attraversano il mondo produttivo si riflettono ancora una volta nelle forme dell’organizzazione politica, ma vi si riflettono in termini di crisi. I partiti cercano di adeguarsi, inseguono arrancando le acrobazie dell’economia globale. Si cerca di appannare o cancellare i tratti identitari, si persegue la trasversalità sommando faticosamente bisogni e interessi eterogenei. C’è chi teorizza il «partito leggero» e chi, applicando il sistema del franchising (la prima Forza Italia), affida allo «spirito del commercio» e all’appeal pubblicitario il rilancio di una partecipazione politica fasulla e gregaria. Nonostante questo dispendio di inventiva e la prepotente irruzione del marketing sulla scena politica, il disfacimento, il «finale di partito» viene solo rinviato dalla sua ultima metamorfosi.
Soldati di ventura
Sia la grande industria che il partito di massa si rifacevano a un altro modello decisivo: quello dell’esercito. L’appellativo di «casta», con cui si è inteso bollare il privilegio, la distanza, l’arroganza e lo spirito oligarchico del ceto politico della Repubblica è in realtà del tutto fuorviante. Nel trasmettere l’immagine di un ordine sacerdotale consolidato, legato a rituali immutabili e riti di passaggio formalizzati, esso omette un passaggio decisivo. Quello dal partito di massa ricalcato, nel bene e nel male, sull’esercito di popolo al partito inteso come esercito mercenario, aperto, per l’appunto, ai «fuori casta» e ai soldati di ventura.
Il berlusconismo, e soprattutto la fase del suo disfacimento, ne costituiscono l’esempio più lampante, anche se il fenomeno, come le cronache hanno dimostrato, è assolutamente generale, non escludendo neanche le legioni al seguito dei tribuni che inveiscono contro il «ceto politico».
Non trovo di meglio che le parole di Machiavelli nel capitolo del Principe dedicato alla milizia, per descrivere le insidie di questo passaggio: «lo stato suo fondato in sulle arme mercenarie, non starà mai fermo né sicuro; perché le sono disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele; gagliarde fra ‘li amici; fra ‘nimici, vile…». E, così come gli antichi eserciti di ventura, le odierne schiere della politica «non hanno altro amore né altra cagione che le tenga in campo, che un poco di stipendio, il quale non è sufficiente a fare che voglino morire per te. Vogliono bene essere tuoi soldati mentre che tu non fai guerra; ma, come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene». Senza contare che «E capitani mercenari, o sono uomini eccellenti, o no: se sono, non te ne puoi fidare, perché sempre aspireranno alla grandezza propria, o con l’opprimere te che li se’ padrone, o con l’opprimere altri fuora della tua intenzione; ma, se non è il capitano virtuoso, ti rovina per l’ordinario».
Dall’identità all’opportunità, dalla casta al mercato, dalla convinzione alle ambizioni personali. Questa la risposta, rivelatasi disastrosa, al tramonto dei partiti ideologizzati di massa, dei quali, sia chiaro, non è sano né utile nutrire alcun rimpianto. Queste caratteristiche non propriamente nobili rispecchiano effettivamente molti tratti della società postfordista, ma non ne rappresentano in nessun modo il rovesciamento, assecondando piuttosto in posizione ancillare l’organizzazione produttiva che la contraddistingue. Ecco perché non abbiamo assistito, almeno finora, (fatta eccezione per le instabili sperimentazioni dei movimenti) alla formazione di forze politiche capaci di trasformare la «liquidità» del presente, per dirla con Baumann, in una pratica di libertà. Di cogliere lo sgretolarsi delle appartenenze e dei ruoli consolidati come occasione di apertura e di rovesciare le interdipendenze eterodirette in cooperazione tra libere singolarità. Il «finale di partito» non prevede eredi.
Nelle pagine conclusive del suo libro Revelli sembra accreditare come una evoluzione in atto e una possibilità concreta la «controdemocrazia» o «democrazia della sfiducia» descritte dallo storico della politica francese Pierre Rosanvallon.
Persa ogni fiducia nella rappresentanza e assunta come incolmabile la distanza tra governanti e governati andrebbe affermandosi una diversa modalità della politica, la «controdemocrazia» appunto, che rinunciando all’esercizio delegato del potere punterebbe invece a controllarlo, a imporne la trasparenza e limitarne gli abusi. Per riprendere la nota formula di John Holloway, si tratterebbe di «cambiare il mondo senza prendere il potere», ma giudicandolo.
Democrazia del controllo
La deriva giudiziaria di questa impostazione è piuttosto evidente. Nella pratica prima ancora che nella teoria. In quella interazione tra opinione pubblica e magistratura che finisce con lo spingere quest’ultima a farsi a sua volta forza politica che reclama a proprio favore la perduta fiducia dei cittadini. Tra le numerose aberrazioni che infestano il discorso pubblico in Italia vi è la pretesa che i magistrati, e cioè uno dei poteri basilari dello stato, siano espressione della cosiddetta società civile. Di questo passo si potrebbe considerare espressa dalla società civile perfino una giunta militare! La verità della «democrazia del controllo» scivola così verso un sistema di delega mossa dal risentimento che ci ricondurrebbe dagli eserciti mercenari a una nuova «casta» inquisitoria, comunque incapace anche solo di sfiorare quei centri del potere, gli oligarchi della governance finanziaria, che fuoriusciti da ogni forma di patto sociale non rispondono ad alcuna legge se non la propria. E non è certo l’arresto di qualche manager corrotto o spregiudicato a contraddire questa realtà.
Questa oligarchia è, ad oggi, l’unica forma politica (anche se poco riconoscibile come tale) in grado di occupare la dimensione globale e dettarne le regole. Non è certo una novità che nella erosione delle sovranità nazionali risieda una delle cause principali del disfacimento dei partiti politici che dello stato nazione e dunque anche del suo ridimensionamento sono rimasti in larga misura prigionieri. Ma questa incapacità di agire sullo scacchiere sovranazionale, così come il mutato rapporto tra economia e politica, laddove la prima si è fatta misura etica, coscienza e superio della seconda, restano, nell’analisi di Revelli un po’troppo lontanamente sullo sfondo.
Pesanti o leggeri, correntizi o monocratici, collegiali o leaderistici, è da escludere che i partiti possano recedere dai tratti mercenari assunti nel passaggio del secolo. Né sarebbe realistico o desiderabile vagheggiare il ritorno al passato. C’è allora una sola opzione disponibile: sottrarre le risorse destinate a retribuire gli eserciti mercenari. Non si tratta banalmente del «taglio dei costi della politica», a cui gli stessi beneficiari si sono ormai rassegnati nel timore di finire fuori mercato, ma dell’appropriazione dal basso di quei beni, quei poteri di decisione, quelle istituzioni, quei saperi, il cui controllo e la cui guida fanno parte integrante del soldo della politica. A cominciare dai beni e dai servizi che lo stato e i suoi amministratori intendono mettere sul mercato per onorare il debito sovrano e salvaguardare il credito proprio.
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