ROMA — L’addio di Valentino Parlato al «suo» manifesto ha un tono estenuato: «Quel che state facendo, sulla nuova cooperativa e sul possibile rilancio del giornale, non mi convince affatto. La crisi non è solo di soldi, ma anche di soldati e di linea». E qui arriva il punto principale del breve commiato: «Mi pento di non essermi associato subito alla posizione di Rossanda, cioè separazione.
ROMA — L’addio di Valentino Parlato al «suo» manifesto ha un tono estenuato: «Quel che state facendo, sulla nuova cooperativa e sul possibile rilancio del giornale, non mi convince affatto. La crisi non è solo di soldi, ma anche di soldati e di linea». E qui arriva il punto principale del breve commiato: «Mi pento di non essermi associato subito alla posizione di Rossanda, cioè separazione. Lo faccio con questa lettera con moltissima amarezza e anche pensando che negli anni passati avrei dovuto fare di più e anche litigare di più. Dopo più di quarant’anni sono fuori da questo manifesto che è stata tanta parte della mia vita». Non solo estenuato, a pensarci, ma anche struggente. Perché è anche il bilancio di una vita professionale e politica.
Parlato lascia il manifesto, a un passo dalla cessione a una nuova cooperativa, dopo il distacco di Rossana Rossanda, l’amaro commiato di Vauro e di Marco d’Eramo. Gli risponde il direttore Norma Rangeri che propone di aprire «un discorso comune sul futuro» quando arriverà la nuova cooperativa e l’attuale vertice «esaurirà la sua responsabilità». Un annuncio di dimissioni per scrivere una pagina nuova. Magari per recuperare chi se n’è andato, a partire dai fondatori Rossanda e Parlato.
La voce di Valentino Parlato non tradisce uno stato d’animo depresso. Appartiene invece a un uomo combattivo: «La fisionomia caratteristica del nostro giornale appare svanita, confusa, sfarinata. E non si fa che perdere copie». E perché, Parlato? «Perché è mancata un’analisi seria della crisi globale. Il giornale si è fermato alla lamentela, al calcolo dei disoccupati, al termometro dello spread che sale o scende. Invece siamo di fronte a uno snodo-chiave del modo di produzione capitalistica, a una grande confusione dell’universo della Finanza». Ma siete disposti, voi fuoriusciti, ad aprire un dibattito con un nuovo manifesto? «Assolutamente sì. Siamo andati via. Ma restiamo presenti, vivi. Puntiamo a creare un luogo dove si possa capire come uscire da questa condizione diventando il punto di riferimento delle speranze per una ripresa della sinistra italiana. Intendo una vera sinistra». Ha ancora senso chiamarsi quotidiano comunista? «Senza dubbio. Dirò anzi, anche se può sembrare una follia, che oggi la proposta comunista diventa persino più attuale perché urge individuare un nuovo modo di produrre e di distribuire i beni».
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