«Stress e libertà », una conferenza del filosofo tedesco Peter Sloterdijk
«Stress e libertà », una conferenza del filosofo tedesco Peter Sloterdijk
Come è possibile che una civiltà come la nostra, fondata su un primato dell’individuo sulla collettività mai raggiunto prima, possa continuare a esistere stabilmente invece che disgregarsi? E che tipo di «libertà» è in gioco in queste società? Si tratta dello stesso significato attribuitogli nella modernità o di quello che possedeva nell’uso antico? Sono alcuni dei temi affrontati dal filosofo tedesco Peter Sloterdijk in una conferenza tradotta di recente in italiano ( Stress e libertà , Cortina 2012, pp. 92, euro 9). Il testo muove appunto a partire dal legame tra stress e libertà, che si delinea tanto di fronte alla costrizione o repressione politica quanto all’oppressione del reale.
La prima forma di libertà, prettamente politica, è quella esercitata da un popolo in quanto desiderio di autodeterminazione contro l’oppressione di un potere arbitrario e dispotico, come nel racconto leggendario della nascita della res publica romana con la cacciata dei re, scatenata dall’indignazione per lo stupro di Lucrezia.La seconda è quella che nasce con l’individuo moderno, inaugurata nella storia della letteratura e della filosofia da Rousseau nella «Quinta passeggiata» delle Fantasticherie di un passeggiatore solitario . Una libertà che consiste nel sottrarsi alla società e alla propria identità implicata dal tessuto sociale, alla «cura» heideggeriana che lega inesorabilmente il soggetto con le sue (pre)occupazioni. Nonostante le rivolte moderne contro le due oppressioni con lo stress relativo, il mondo contemporaneo è caratterizzato nuovamente su larga scala dalla tirannia politica e dalla dittatura del reale. Quest’ultima si è fatta ancora più soffocante nella forma del commercio globalizzato e dei fantasmi della speculazione finanziaria, che come agenti di stress continuo, attraverso un pervasivo sistema mediatico, sono in grado di tenere insieme società basate su uno stile di vita individualistico, di per sé tendente alla disgregazione. Al centro della riflessione si colloca lo spunto teorico più interessante del testo, secondo cui «i grandi corpi politici che chiamiamo ‘società’ sono da intendersi, in linea di principio, come campi di forza stress-integrati, più precisamente come sistemi di preoccupazioni autostressanti e permanentemente proiettati in avanti».
C’è dunque un momento di libertà che consiste nella fuoriuscita, sempre circoscritta, dai macrocorpi sociali nei quali siamo immersi e avvinti attraverso un costante stress comune. Ed è solo a partire da quest’esperienza di liberazione che è possibile muovere nuovamente verso un genuino impegno nella società, un engagement consapevole, senza bisogno né di artifici teorici che riconoscano una naturale tendenza alla solidarietà sociale, né d’altra parte di abbandonarsi a una desolante antropologia politica che riduca gli individui alla ricerca dell’utile e dell’interesse personale. Questa libera e consapevole scelta per l’autooppressione dell’impegno si fonda infatti sulla riscoperta di quella sfera psicologica che Sloterdijk definisce con il termine greco thymos che comprende l’orgoglio, la disposizione al dono, il desiderio spontaneo di elevazione sull’ordinario. È un tema caro all’autore, che lo ha utilizzato tanto come chiave di lettura dei movimenti storici di rivoluzione e riforma del reale quanto alla base della sua scivolosissima «filosofia delle tasse». In questo testo viene utilizzato per compiere un’operazione che, muovendo da una critica all’odierno pensiero liberale e neoliberale, tenta di riappropriarsi della potenza teorica e politica del concetto di «libertà», scardinando il nesso che lo lega al desiderio di possesso e di consumo, all’insegna di «una vita nella gabbia dell’avidità». I veri liberali, ci viene detto, sono coloro che aggiungono l’idea di possibilità all’obbligo realista del senso di realtà, rifiutando la tirannia del probabile e aprendosi a una disposizione d’animo verso ciò che è più difficile e improbabile e anche meno volgare e meno comune.
Queste analisi del mondo contemporaneo possono tuttavia risultare deludenti, almeno secondo gli standard della critica sociale, sviluppandosi prevalentemente nel terreno di una peculiare antropologia filosofica. Tuttavia, qualora intendiamo la critica non a partire dai suoi contenuti, ma dalla capacità di tematizzare e portare a esplicitazione ciò che normalmente costituisce elemento di sfondo o presupposto irriflesso, possiamo trovare in questa riflessione degli stimoli critici per svincolarsi dalla necessità di un sistema che si pretende naturale e insuperabile. Se il capitalismo e il suo spirito (come ci hanno mostrato Boltanski e Chiapello) si sono caratterizzati per l’incredibile capacità di fagocitare e metabolizzare qualsiasi elemento neutro o persino di critica, allora si tratta di prendere sul serio (anche al di là delle intenzioni dichiarate) ogni tentativo di operare cambiamenti di sguardo, sottraendo termini e nozioni al linguaggio dominante e restituendoli al lavorio del pensiero collettivo.
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