La tragedia della realpolitik

BENI COMUNI. Da argomento eccentrico vissuto ai margini dell’accademia, i «commons» si sono imposti negli ultimi anni come un tema politico. Ma è dalle università  che è partito l’attuale tentativo di sminuirne la portata «radicale». Un sentiero di lettura

BENI COMUNI. Da argomento eccentrico vissuto ai margini dell’accademia, i «commons» si sono imposti negli ultimi anni come un tema politico. Ma è dalle università  che è partito l’attuale tentativo di sminuirne la portata «radicale». Un sentiero di lettura
Le parole manifestano, a volte, un affascinante potere performativo. Accade anche ai concetti. Talvolta, sono infatti capaci di sovvertire un senso apparentemente immutabile, stabilito, istituzionalizzato, mutando così i processi storici; altre volte rientrano nel cassetto delle occasioni perdute. Nell’occidente secolarizzato dalla modernità, i concetti potenzialmente sovversivi sono legati al mondo dell’economia, la attraversano e la collegano con la politica, il diritto e la filosofia, costruendo così un senso comune istituzionale. Due esempi per intenderci, tratti dalla storia recente: privatizzazione e sostenibilità. Nel primo il concetto sovverte. Nel secondo, addomesticato, poco a poco si spegne. Quale sorte toccherà ai «beni comuni»?
La privatizzazione domina il senso comune in cui oggi viviamo. Rompe con un intero cammino di civiltà in cui la speranza era riposta nello Stato sociale. L’assetto fondato su uno Stato sovrano mediatore fra capitale e lavoro dura fino alla metà degli anni Settanta del Novecento. Nel frattempo, gli anticorpi a quell’assetto sociale e politico covavano sotto le ceneri. La Montpellerin Society e la Trilaterale stavano infatti affinanando un ordine del discorso che alimentasse un rigetto allo Stato sociale. Protagonisti di tale reazione la diffusione e i think thank delle tesi elaborati dagli economisti Friedrich August Von Hayek, Ludwig Von Mises, Milton Friedman. L’idea forte è la privatizzazione. L’esito è ormai noto: lo stato sociale viene cancellato o ridimensionato con più facilità del previsto. Il concetto di privatizzazione ha messo in soffitta John Maynard Keynes, cambiando così il mondo.
L’ipocrita sostenibilità
Sul fronte opposto, al tramonto del modello keynesiano, nella seconda parte degli anni Sessanta dello stesso secolo, emerge il pensiero ecologista profondo. Raquel Carson lancia l’allarme. Fritz Shumacher lo traduce in ricette economiche dotate del prestigio di esser sostenute da un allievo prediletto di Lord Keynes. Nasce il concetto economico di «sostenibilità», splendido nella sua semplicità. Un sistema economico è sostenibile se non consuma più risorse di quante ne sappia rigenerare. Il pianeta non va consegnato alle generazioni future in condizioni peggiori di quelle in cui ci è stato consegnato dalle generazioni passate. L’idea fonda un approccio intellettuale volto ad allontanare l’economia dai paradigmi meccanicistici del positivismo scientifico. Si cerca la sufficienza, non la crescita. La sostenibilità si articola in un contesto di «conversione» ecologica dell’economia.
Nei suoi scritti, Alex Langer ha enfatizzato la natura non solo materiale e politica ma allo stesso tempo spirituale e personale di questo processo. La rottura con l’ortodossia economica, con lo stesso senso comune fondante la modernità non potrebbe essere più radicale. Shumacher resterà sempre un pensatore eterodosso, fortemente critico della concezione dominate dello «sviluppo» su cui si fondano le ricette imperialiste, promosse in tutto il mondo come «globalizzazione dei mercati» dopo la decolonizzazione. Il suo libro, Small is beautiful è tornato a essere un cult nella attuale economia della transizione, ma la locuzione «sostenibilità», dopo una prima fase radicalmente sovversiva, é progressivamente normalizzata dai dispositivi ideologici del capitalismo. «Sviluppo sostenibile», un vero ossimoro diventa nozione dominante nei programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e del Fondo Monetario. Un’idea truffaldina di green economy serve da foglia di fico di uno sfruttamento dell’uomo e della natura sempre più intenso e scientifico nell’attuale strutturazione del capitalismo cognitivo. La terra fertile è coperta da pannelli solari. La monocultura della soia e del mais produce biodiesel per far funzionare i Suv che intasano le metropoli nel Nord e nel Sud del Mondo. La green economy abbatte le barriere fra il mercato dei carburanti e quello del cibo. Barack Obama è l’alfiere di questo capolavoro.
La provocazione di Hardin
Oggi i beni comuni costituiscono l’oggetto del contendere fra due visioni del mondo. Da un lato si propongono come rivoluzione generativa. Dall’altro essi, a seguito del loro emergere politico, sono oggetto di un vero tentativo di detournement reazionario, per utilizzare, a contrario, la terminologia debordiana. L’operazione, come tutti gli scontri capaci di produrre ideologia e falsa coscienza, è complessa.
Sul piano delle idee la locuzione commons viene recuperata al dibattito da Garret Hardin, un biologo-economista che dedica un celeberrimo articolo alla «tragedia dei comuni». Il lavoro costituisce una specie di teoria evoluzionistica della proprietà privata, in cui quest’ultima istituzione è rafforzata nel quadro della più stratta applicazione del modello fondato sull’homo oeconomicus. A partire dai tardi anni Ottanta, Elinor Ostrom,una politologa-economista vicina alla scuola del cosiddetto «neo-istituzionalismo» organizza una serie di studi per dimostrare che i commons non sono luoghi di «non diritto», come argomentava Hardin, ma che al contrario essi hanno sostenuto per secoli istituzioni sociali in equilibrio senza che si verificassero tragedie di sorta. Nel 2009 Ostrom riceve il Nobel per l’economia. Scottata dalla crisi economica, il pensiero economico mainstream cerca di rifarsi una verginità. Vengono premiati lavori eterodossi che cercano di inserire un minimo di realismo nell’astratto mondo dei modelli teorici. Paladini di questa correzione «realista» del pensiero economico dominante sono: North, Stigliz, Kaneman, Krugman. Le resistenze globali (dal Chiapas a Cochabamba, a Seattle) hanno reso evidente che la critica di Ostrom a Hardin, decisiva nell’analisi delle motivazioni del singolo, assai più sovente homo civicus che homo oeconomicus, non coglie politicamente nel segno perché risparmia le corporation e al contempo rafforza il modello dominante, correggendone i difetti più eclatanti. Ecco spiegarsi il Nobel assegnato all’autrice di un contributo teorico di grande spessore che, nel suo impatto politico, non contribuisce però ad assegnare le responsabilità per l’attuale tragedia dei comuni.
Il contributo di Ostrom non distingue infatti fra persone fisiche e persone giuridiche gli esiti dei cui comportamenti sono perfettamente previsti da Hardin. Così facendo struttura un’ambiguità culturale, politica e semantica che espone i commons, sussunti nel modello positivistico dell’economia politica, al medesimo rischio che ha depotenziato l’idea di sostenibilità. Tuttavia il lavorio scientifico che si è svolto in tutto il mondo intorno alla nozione dei commons ha prodotto ben più della sola consapevolezza della sua alterità rispetto alle nozioni di pubblico e di privato articolatesi a partire dalla modernità. Dalla caduta del Muro di Berlino, il processo di privatizzazione del pubblico (soprattutto dal punto di vista delle sue motivazioni) é a sua volta un fattore che determina a livello globale la tragedia dei comuni. Questo fenomeno, supportato da un impressionante processo di cattura cognitiva che produce l’attuale «realismo economico» (oggi supportato da schiere di filosofi) può essere contrastato soltanto in un quadro «rivoluzionario» disposto a contestare radicalmente il realismo positivista fondato sulla distinzione fra fatti e valori. La declinazione «rivoluzionaria» dei beni comuni costituisce la traduzione teorica di prassi di lotta che mirano innanzitutto a salvaguardare tutte le possibili declinazioni di un «sentire comune istituzionalizzato» che si scontra con un legalismo formale che supporta la privatizzazione e il saccheggio dei beni comuni (prassi delle occupazioni, book blocks, contestazione fisica della proprietà pubblica e privata).
In questo senso i beni comuni sono prassi costituente che sa invertire la rotta rispetto alla strutturazione istituzionale del neoliberismo attraverso una critica capillare, diffusa e radicale, di ogni sua nuova recinzione fisica o cognitiva. Solo la consapevolezza dei beni comuni nella loro autentica portata di forza fisica costituente consente di evitare la cattura cognitiva, la sola spiegazione alternativa alla deliberata volontà di saccheggio che spiega l’atteggiamento attuale delle sinistre c.d. riformiste (vedi i lavori del collettivo Uninomade recentemente raccolti da Sandro Chignola nel volume Il diritto del comune per i tipi di ombre corte). Non è un caso che il principale partito responsabile della cattura cognitiva della sinistra italiana provi a presentarsi all’elettorato con il logo dei beni comuni e che, ambienti intellettuali a esso contigui (vedi il recente libro di Laura Pennacchi La filosofia dei beni comuni, Donzelli), cerchino di dare legittimazione addirittura filosofica a tale detournemet.
Nella trappole del dover essere
Il rapporto fra beni comuni ed economia politica mostra il potente arricchimento teorico che deriva da una rinnovata declinazione collettiva dello spazio economico. La semplice idea fondante i movimenti alter-mondialisti per cui «un altro mondo è possibile» mostra nella prassi «beni-comunista», perfino meglio che nella critica fenomenologica, l’inconsistenza teorica della bipartizione positivistica fatto-valore su cui si collocano scienza economica dominante e il cosiddetto «nuovo realismo». Proprio come esiste un «comune» che come la talpa erode spazio tanto alla proprietà privata quanto allo Stato, esiste una terza dimensione accanto a quelle dell’«essere» e del «dover essere», che erode il realismo del primo e il dogmatismo del secondo. È la dimensione del «potrebbe essere» che stimola il sogno e la fantasia collettiva e per questo sol fatto cambia il mondo. Qui si collocano i beni comuni e non nell’intestazione di una lista elettorale o in filosofie vittime di cattura cognitiva che, a suo supporto, cercano di addomesticarne il potenziale «rivoluzionario».

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La ricchezza di un concetto

Gli scaffali dei volumi dedicati ai beni comuni continua a riempirsi di nuovi titoli. Orami, «beni comuni» è una chiave di accesso per comprendere come la formazione di alcuni settori siano stati resi possibili attraverso un doppio passaggio. Il primo è di considerare la sanità, l’informazione, la cultura come un bene comune, sostenendo successivamente che è il mercato il miglior modo per «conservarlo». Tra gli ultimi titoli sul tema vanno segnalati: «The Wealth of the commons. A World Beyond Market and State» di Bollier David, Helfrich, Silke , Levellers Press, 2012; il libro collettivo «Viaggio nell’Italia dei beni comuni» (Marotta&Cafiero); «Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti», a cura di Sandro Chignola (ombre corte); «Bentornata realtà, Il nuovo realismo in discussione», curato da Mario De Caro e Maurizio Ferraris (Einaudi); Antonio Negri e Michael Hardt «Comune» (Rizzoli); «Governare i beni collettivi» di Elinor Ostrom (Marsilio); Laura Pennacchi «Filosofia dei beni comuni» (Donzelli); «Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva» del collettivo Rebelpainting (Rebeldia Edizioni); «Azione popolare. Cittadini per il bene comune» di Salvatore Settis (Einaudi); «La rivolta culturale dei beni comuni» del Teatro Valle Occupato (DeriveApprodi); «La conversione ecologica» di Guido Viale (Nda Press).

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