Dicembre ’43, storie di Resistenza in Valsesia

ROMANZI Giacomo Verri, «Partigiano Inverno»
Nel segno di Calvino, Pavese e Fenoglio, uno stile complesso, ricco di echi, rimandi e citazioni L’esordio di Giacomo Verri, Partigiano inverno (Nutrimenti) è sicuramente uno dei più interessanti di questa annata libraria. Il libro ricostruisce un episodio in minore della resistenza sullo sfondo di Borgosesia. Tre sono le generazioni e i punti di vista che vi si incrociano.

ROMANZI Giacomo Verri, «Partigiano Inverno»
Nel segno di Calvino, Pavese e Fenoglio, uno stile complesso, ricco di echi, rimandi e citazioni L’esordio di Giacomo Verri, Partigiano inverno (Nutrimenti) è sicuramente uno dei più interessanti di questa annata libraria. Il libro ricostruisce un episodio in minore della resistenza sullo sfondo di Borgosesia. Tre sono le generazioni e i punti di vista che vi si incrociano. Il primo è quello del ragazzino Umberto, che scopre l’amore e la lotta partigiana e vuole chiedere per regalo di Natale – il romanzo si svolge nel dicembre 1943 – un fucile; il secondo è quello di un giovane alle prese con il divario tra la vita partigiana, immaginata e desiderata, e la realtà quotidiana, con le corvée di guardia o le sere passate a pelare patate. A queste visioni desideranti della lotta partigiana fa da contraltare il professore Italo, che rimugina tra l’appoggio alla lotta e la disillusione nei confronti degli esseri umani.
Già da questo riassunto si può vedere come Verri sia profondamente debitore di tre autori che hanno raccontato la resistenza. Nelle esuberanze dell’adolescente non si fatica a riconoscere il Pin de Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, mentre Jacopo, il partigiano pensoso, ricorda l’amletico Johnny di Fenoglio e il professore scettico ha i dubbi e le ubbie dell’io narrante de La casa in collina di Cesare Pavese. La ri-scrittura di Verri si basa dunque su una reinterpretazione dei classici resistenziali (ai tre nomi citati si potrebbe aggiungere il Meneghello di Piccoli Maestri), ma mischia le carte, spostando l’azione tra i monti della Valsesia. E questa re-invenzione trova la sua ragion d’essere nella lingua: Verri sceglie infatti uno stile complesso, pieno di echi e di citazioni, in contrasto con la medietà che governa gran parte della narrativa italiana. La scrittura e lo sguardo sembrano essere il cantuccio «manzoniano» da cui Verri osserva la storia e stabilisce la distanza. Provando a scrivere un romanzo storico rispetto a una materia avvertita come urticante, l’autore pare usare la lingua come specchio rispetto a un tempo e a una vicenda che non ha vissuto. Il tono così diventa insieme elemento di forza e di debolezza: acquista forza epica nei momenti cruciali, mentre è semplice orpello nei luoghi di raccordo.
Due sono i punti deboli di Partigiano Inverno. Il primo possiamo definirlo il «trattamento del nemico». Nel romanzo di Verri i fascisti entrano in conflitto con i protagonisti, ma – rispetto alla complessità di Fenoglio o di Pavese – non hanno vita narrativa, sono ombre. Il secondo punto riguarda l’artificio del manoscritto ritrovato, che suona come una scusante posta a romanzo concluso. Anzi il fatto che il capitolo finale non abbia segni tipografici di separazione rispetto alla narrazione mostra forse il timore dell’autore nel ri-scrivere la resistenza, quasi infrangesse un divieto. La scelta di Verri fa nascere in chi legge una domanda: e se per scrivere un romanzo sulla resistenza fosse necessario pensare la lotta partigiana «come se» fosse una opera di fantasia?

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