Il sentimento oscuro della metropoli

Intervista Constanza Macras parla di «Here/After», il suo nuovo spettacolo, da stasera nella capitale per RomaEuropa. Due donne rinchiuse nel loro appartamento. «L’agorafobia esprime la realtà  di oggi, in cui l’esterno è solo una comunicazione immateriale» «Non ho pensato a un luogo specifico, credo che questo tipo di paura esprima una condizione globale»

Intervista Constanza Macras parla di «Here/After», il suo nuovo spettacolo, da stasera nella capitale per RomaEuropa. Due donne rinchiuse nel loro appartamento. «L’agorafobia esprime la realtà  di oggi, in cui l’esterno è solo una comunicazione immateriale» «Non ho pensato a un luogo specifico, credo che questo tipo di paura esprima una condizione globale» ROMA. Constanza Macras è argentina, è nata a Buenos Aires, da molti anni ormai vive a Berlino, a Engeldamm, vicino alla chiesa di St. Thomas, Kreuzberg è subito dall’altra parte, laddove il vuoto lasciato dal muro è stato riempito di giardini. Prima, racconta, stava a Prenzlauerberg, oggi zona superchic, lo chiamano il quartiere delle bio-mamme, e lei che è mamma non sopportava neppure l’idea di rientrare in quel modello di maternità. Ride, un bel sorriso, pieno dell’energia che trasmettono le sue parole.
A Roma quando la incontriamo è arrivata da qualche ora, stasera nel cartellone di RomaEuropa debutta Here/After (anche domani e domenica al teatro Eliseo), mentre parliamo in sala montano la scena. Bevendo il caffé mi chiede del film dei Taviani, Cesare deve morire, a Berlino durante il festival non è riuscita a vederlo, e adesso nonostante l’Orso d’oro in Germania non è uscito : «Incredibile no?».
Il titolo, Here/After, l’ha scelto pensando all’eternità ma anche al futuro, e alla possibilità di una persona di essere in più di un luogo. In scena ci sono due donne, due amiche, due amanti, lei preferisce non specificarlo: «Forse sono solo due persone che dividono un appartamento», dice. In comune hanno la paura dell’esterno, della folla, del vuoto: centri commerciali, locali, parcheggi tutto le spaventa. La chiamano agorafobia, il mondo per loro è stato inghiottito dalle pareti di casa. La vita sono i monologhi con se stesse in quello spazio protettivo, un rifugio dove liberare le loro divagaziano, i fantasmi di un’esistenza negata, il sogno dell’uomo perfetto, la fantasia di una serata, forse una festa … La realtà nei loro pensieri corre veloce, affastella immagini rassicuranti in cui la loro angoscia può diventare qualcos’altro. Nella vita delle donne, infatti, entrano ogni tanto presenze occasionali, un fattorino, un’altra donna che vedono attraverso il vetro. È giapponese, parla spesso su skype, le sue parole sono incomprensibili. Sono anche loro segno del nostro tempo? Presenze di una realtà, di un esterno divenuto assenza? E cosa farà quel musicista solitario che sogna di diventare una rock star e ha il terrore della folla? «Mi sono ispirata a una vera cantante, non ricordo il suo nome, ho visto i video su youtube» dice Macras.
C’è una città precisa in cui le hai immaginate, chiedo. Potrebbe essere Berlino, con quei suoi spazi vuoti, le strade che sembrano non finire mai. «Lo sai che l’agorafobia è stata individuata da studiosi berlinesi? Però non ho pensato a un luogo specifico, può accadere ovunque. Un amico che soffre di agorafobia viveva a New York, è rimasto per mesi chiuso in casa. Lì è anche più semplice, puoi avere tutto a casa, a Berlino comincia a essere così adesso. Nella mia idea è una fobia in cui si manifesta il presente, che racconta la relazione con lo spazio e quella con l’esterno, con una grande città. La dimensione di queste due donne si inserisce in quella linea che divide lo spazio tra pubblico e privato. Il primo per loro diventa il secondo, ma in qualche modo anche il suo contrario, e tutto vi si mescola, rabbia, confusione, ansia».
Ecco, la metropoli, che è un riferimento costante nel lavoro della coreografa, divenuta un riferimento per la scena mondiale. Here/After in questo senso rimanda a Brickland, Megalopolis, Berlin Elsewhere, a quel movimento sospeso nelle metropoli globalizzate che possono essere Buenos Aires o Berlino, in cui si manifesta anche il sentimento della sua esperienza.
La metropoli di Brickland, a Buenos Aires, era espressione di un quartiere chiuso, di barriere che servono a difendersi contro gli attacchi esterni, ladri, ragazzini armati. «Tanti anni fa dei ragazzi molto giovani, hanno preso in ostaggio una donna che viveva nella casa di mia madre, l’aveva venduta da poco. È stato strano perché alla televisione passavano le immagini della casa della mia infanzia, e mia madre sarebbe potuta essere quella donna … L’idea di fabbricare dei quartieri chiusi nasce dallo stesso sentimento di paura delle due protagoniste di Here/After, ci si deve proteggere dagli attacchi di un esterno che non si riesce a controllare. Ma nella maggior parte dei casi questi quartieri sono fascisti, dominati da restizioni insopportabili, da regole che limitano il movimento degli individui. Ho conosciuto solo un quartiere del genere diverso, dove sta il padre di una delle mie attrici, che è molto più rilassato rispetto alla norma».
Anche per questo, forse, a Buenos Aires lei non vivrebbe più. Ama Berlino, profondamente, non potrei vivere da nessun’altra parte, dice, ma con la consapevolezza che anche lì c’è una certa segregazione, e il rapporto tra spazio pubblico e privato si è assottigliato. «Forse l’agorafobia è anche una forma di difesa rispetto a un possibile fallimento» dice Macras. E aggiunge: « Mi sono chiesta iniziando a pensare a questo lavoro in che modo la vita di ogni giorno nelle grandi città in che modo pone dei limiti alle persone. Un attacco di panico in un centro commerciale può essere una forma naturale di difesa o deve essere trattato con una terapia medica? Così nella ricerca di una risposta ho iniziato a esplorare l’anonimato e il cresente isolamento dell’individuo nella vita metropolitana attuale, nello spazio pubblico e nelle patologie che manifesta. In fondo anche l’esistenza comune delle due donne protagoniste di Here/After può sembrare una sorta di alibi, una scusa per difendersi da tutto il resto. Non è mai stato facile come oggi essere soli in una società che ha trasformato l’esterno in una comunicazione infinita e immateriale via internet, youtube ecc … E fuori da questo, qual è l’esperienza che una persona vive davvero?»
In scena, però, con l’ironia paradossale che è cifra dominante della sua poetica, Macras ha ha giocato su più registri: «Ci sono azioni che si ripetono sulla riga dello slapstick, situazioni invece più narrative e altre in cui le persone combattono fisicamente con lo spazio che le circonda. Ma mi piace unire tragedia e commedia, mi sembra che esprima la vita».

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