LA SINISTRA DEL RISENTIMENTO
Perché nel linguaggio (anti)politico della sinistra e dei movimenti dilagano moralismo e legalitarismo, colpa e punizione? All’origine, secondo «La politica fuori dalla storia» di Wendy Brown, c’è il lutto non elaborato di un’identità perduta
LA SINISTRA DEL RISENTIMENTO
Perché nel linguaggio (anti)politico della sinistra e dei movimenti dilagano moralismo e legalitarismo, colpa e punizione? All’origine, secondo «La politica fuori dalla storia» di Wendy Brown, c’è il lutto non elaborato di un’identità perduta
Wendy Brown, pensatrice politica americana di rilevanza riconosciuta anche nel miglior dibattito filosofico europeo, è nota alle lettrici e ai lettori del manifesto per i suoi contributi al giornale (da ultimo un’analisi di Occupy Wall Street, Il ritorno della res publica, il manifesto 11/11/2011), nonché per la sua brillante partecipazione, assieme a Judith Butler, al convegno su Sovranità, confini, vulnerabilità organizzato da chi scrive nel 2008 all’università Roma Tre (si vedano le pagine speciali sul manifesto del 25 marzo 2008). La sua spiccata capacità di interpretare il presente intrecciando l’analisi della cronaca con l’uso dei classici ne fa un punto di riferimento imprescindibile su un arco tematico che va dalla crisi delle forme e delle categorie politiche della modernità alle dinamiche della globalizzazione, dalla dissoluzione del soggetto sovrano alle modalità odierne della soggettivazione, dall’analisi del potere alla passione della libertà, dalla critica del neoliberalismo all’interrogazione sulla paralisi e la depressione della sinistra ex comunista.
Va salutata perciò con soddisfazione la prima traduzione italiana di un suo libro – La politica fuori dalla storia, a cura di Paola Rudan, traduzione ineccepibile di Amanda Minervini, Laterza, 210 pp., 19 E. – , che colma efficacemente, ancorché parzialmente, una inspiegabile e colpevole lacuna editoriale italiana. Efficacemente, perché il ventaglio di questioni che compaiono nel libro è largamente esemplificativo della produzione di Brown nonché, come evidenzia Rudan nella sua accurata ed esauriente introduzione, della sua collocazione nel dibattito internazionale e del suo potenziale impatto su quello italiano. Parzialmente, perché i saggi che lo compongono risalgono tutti agli anni Novanta, e dunque non rendono conto né della dirompenza anticipatrice con cui quelle questioni vengono tematizzate nella produzione precedente dell’autrice, né della torsione decisiva che assumono dopo l’11 settembre 2001, evento periodizzante per la traiettoria del suo pensiero. Fuori restano, in particolare, il prezioso lavoro di Brown sulla categoria della libertà, che agisce come movente e punto d’approdo anche in questo libro ma che attraversa soprattutto States of Injury del 1995 e torna come rovello in tutta la sua produzione successiva («Credo che la libertà sia il tema costante del mio lavoro», ha detto in una lunga intervista di qualche anno fa sul suo percorso intellettuale); e la più recente e acuta analisi del neoliberalismo e dei suoi effetti devastanti sulle forme istituzionali e sull’antropologia politica delle democrazie novecentesche (una serie di saggi dell’ultimo decennio, parzialmente ripresi in Walled States, Waning Sovereignty, il libro del 2010 che amplia la conferenza romana del 2008).
Rispetto agli inizi e agli approdi, La politica fuori dalla storia sembra insomma un libro di transizione, che sistematizza la riflessione di Brown sulla crisi dei paradigmi della modernità, sui compiti teorici che essa impone e sugli scenari di trasformazione politica che essa apre, o meglio, che stentano ad aprirsi dopo la sua consumazione. Si tratta dunque di una illuminante radiografia della situazione di spiazzamento e disorientamento in cui il pensiero della trasformazione permane dopo l’89, corredata di piste per ritrovare l’orientamento senza ricadere nella ripetizione svuotata o nella nostalgia autoconsolatoria delle coordinate perdute. Una radiografia che tuttavia mantiene intatta la sua forza provocatoria rispetto alla situazione politica, culturale e emozionale della sinistra italiana, dove l’ombra dell’89 sembra allungarsi più che altrove. E dove i suoi effetti perversi presi di mira da Brown – la piegatura risentita, moralistica, legalitaria del discorso politico e mediatico – si dispiegano potentemente da qualche anno in qua, spesso ricalcando, più o meno consapevolmente, tendenze già sperimentate nello scenario americano.
Il titolo del libro non deve trarre in inganno, perché per «politica fuori dalla storia» non si intende in alcun modo una politica avulsa dalla storicità, bensì una politica costretta a fare a meno della concezione progressiva e teleologica della storia propria della modernità e delle sue principali tradizioni politiche, quella liberale e quella comunista, entrambe smentite nelle loro promesse universalistiche di eguaglianza sostanziale e formale dal crollo del mondo bipolare e dalle contrazioni spazio-temporali del mondo globale. Da più di un ventennio a questa parte si tratta, per la teoria e la pratica della trasformazione, di fare i conti non solo con la crisi delle categorie portanti della politica moderna – soggetto sovrano e Stato sovrano, rappresentanza, persona, diritto e diritti, uguaglianza, libertà, fraternità e via dicendo – ma con la concezione della temporalità che ne costituiva la premessa e lo sfondo: la storia non procede linearmente dal passato al futuro, e il suo andamento non è né fondamento né garanzia del progetto di emancipazione, costretto a fare i conti con la natura assolutamente contingente dell’azione politica.
Ma più che insistere sul tema generale che muove il libro, tema peraltro non poco frequentato nella filosofia politica italiana degli ultimi decenni, bisogna evidenziare la postura teorica da cui Brown lo affronta e le piste politiche che ne trae, l’una e le altre invece originali e dense di conseguenze per il dibattito di casa nostra. La postura teorica, che qui risulta dal dialogo serrato dell’autrice con Marx, Freud, Nietzsche, Foucault, Benjamin, Derrida e che caratterizza tutto il suo lavoro, testimonia infatti la produttività di un decostruzionismo propositivo e non dissolutorio che destituisce di fondamento, e contesta esplicitamente, gli attacchi sommari e generici al postmodernismo tout court, già in voga nella sinistra ortodossa americana dieci anni fa e molto in voga oggi in Italia sotto le insegne del cosiddetto «nuovo realismo». Mentre le piste politiche dimostrano quanto sia o potrebbe essere fertile il campo che emerge dalle macerie della modernità, se lo si sapesse affrontare con gli strumenti giusti e con una adeguata elaborazione del lutto di ciò che, a sinistra, va considerato davvero perduto perché possano darsi le condizioni di una ripartenza credibile.
Queste piste sono tre, tutte e tre comportano la frequentazione del confine fra politica e psicoanalisi che è un’altra cifra caratteristica del lavoro di Brown, e tutte e tre parlano direttamente allo spirito del tempo che oggi, in Italia come in altre democrazie occidentali, nutre il terreno di coltura del risentimento e dell’antipolitica. La prima pista parte direttamente dalle trasformazioni della temporalità per delineare i tratti di una politica affrancata tanto dalle illusioni teleologiche quanto dalle delusioni vendicative. La saldatura fra la fine dell’idea di progresso e l’accelerazione senza precedenti del ritmo del cambiamento provoca oggi uno scollamento fra presente, passato a futuro, che alimenta a sua volta un immaginario della storia come mero teatro traumatico, abitato da vittime e carnefici e imprigionato nell’economia rancorosa della colpa e dell’espiazione. Un’economia che si può spezzare solo rinunciando per sempre a una visione deterministica e catartica del processo storico, accettando la sua natura contingente, riconciliandosi con l’incombenza intermittente e spettrale del passato sul presente, praticando una politica del lutto, dell’eredità e della memoria che si sostituisca al linguaggio ricattatorio, ossessivo e depressivo del debito, del risarcimento, della guerra generazionale. Qui il confronto, nel capitolo finale e più intenso del libro, è con le figure dell’angelo di Benjamin e dello spettro di Derrida. E gli obiettivi polemici sono per un verso le campagne mediatiche basate sull’immaginario traumatico della storia di cui sopra, per l’altro verso gli attaccamenti malinconici della sinistra alle sconfitte passate e alle illusioni progressiste sul futuro, attaccamenti che la esimono dal lavorare sulle possibilità che pure si aprono in un presente nient’affatto slegato dal passato, come le ideologie «nuoviste» lo rappresentano, bensì saturo di sedimentazioni e tracce disconosciuti, e aperto sull’imprevisto.
La seconda pista parte dalla fine del soggetto sovrano ed esplora le forme oggi possibili di soggettivazione politica, passando per la critica della categoria di desiderio e segnatamente delle sue concezioni univocamente liberatorie, di matrice foucaultian-deleuziana, che ne rimuovono le ambivalenze costitutive. Qui – nel cruciale saggio intitolato «Un bambino viene picchiato», che letto in sequenza con quello sulla nozione di «attaccamento ferito» (wounded attachment) in States of Injury restituisce uno degli apporti più rilevanti del pensiero di Brown – il confronto è con Freud, e gli obiettivi polemici sono per un verso la sete sadica di punizione degli altri che avvelena oggi il patto sociale democratico, per l’altro verso, e congiuntamente, l’istinto masochista di punizione di se stessi che sostiene le forme di soggettivazione politica basate sull’attaccamento alla posizione della vittima destinata di un rapporto di dominio invincibile. E’ uno dei punti del volume che meglio restituisce tanto la matrice femminista del pensiero di Brown quanto la sua distanza dal femminismo vittimistico-persecutorio che ha bisogno di rimettere continuamente in scena la forza del dominio patriarcale per alimentare la propria identità. Ma il discorso vale allo stesso titolo per tutti gli altri movimenti mossi da una sacrosanta spinta di libertà ma bloccati da forme simili di fissazione identitaria.
E conduce alla terza pista, quella che in apertura del volume traccia il confine sottile e scivoloso che passa fra una spinta morale che dà senso all’azione politica e una ossessione moralista che della politica è invece la negazione: la prima essendo basata su una condivisione di valori aperta, spersonalizzata e inclusiva, la seconda su una riprovazione personalizzata, colpevolizzante, legalitaria e diffidente verso una sfera istituzionale giudicata sempre e comunque castale, corrotta, inefficiente e decadente. Ne sappiamo qualcosa in Italia, dal susseguirsi e dall’inseguirsi di retoriche demagogiche di destra e di sinistra che, dalla scoperta di Tangentopoli in poi, hanno tracciato la strada perversa e inconcludente dell’infinita transizione italiana. Ma Brown ci aiuta a vedere l’origine di questo scivolamento, riportandolo anch’esso alla perdita non elaborata, a sinistra, del desiderio rivoluzionario, e alla sostituzione dell’analisi delle contraddizioni che un tempo si sarebbero dette «di sistema» con la recriminazione perdente e la rivendicazione personalizzata. «Non elaborare il lutto, moralizza. Finché non avremo fatto i conti con le perdite che generano questo tipo di moralismo, rimarremo vittime di una malinconia che le rimette in scena». De nobis fabula narratur: se il risentimento, l’ideologia del debito e della colpa, il moralismo, il vittimismo e il legalitarismo dilagano a sinistra, non è solo dentro l’astuzia del nemico che dobbiamo guardare, ma anche, e prima, dentro i nostri attaccamenti inconsci e non elaborati a un’identità tanto feticizzata quanto ferita e smarrita.
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