Foto di Ivan Doglia

 

A Torino, il Centro di identificazione ed espulsione per gli immigrati dovrebbe essere una struttura di accoglienza ma in realtà  è una prigione di massima sorveglianza. Tra gabbie metalliche e ronde militari. Dove impera l'abuso di sedativi e psicofarmaci. E cresce il business per la gestione ">

Quella galera chiamata Cie

Foto di Ivan Doglia

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A Torino, il Centro di identificazione ed espulsione per gli immigrati dovrebbe essere una struttura di accoglienza ma in realtà  è una prigione di massima sorveglianza. Tra gabbie metalliche e ronde militari. Dove impera l’abuso di sedativi e psicofarmaci. E cresce il business per la gestione

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A Torino, il Centro di identificazione ed espulsione per gli immigrati dovrebbe essere una struttura di accoglienza ma in realtà  è una prigione di massima sorveglianza. Tra gabbie metalliche e ronde militari. Dove impera l’abuso di sedativi e psicofarmaci. E cresce il business per la gestione

«Ma cosa vogliono dire quelle scritte?». Le domande dei bambini escono così. Per mano, in fila a un doposcuola, guardano dall’altra parte della strada. Su un muro si legge: «I militari rapiscono chi è senza documenti».

Corso Brunelleschi, Torino: dietro il cemento armato c’è il Cie, uno dei 13 Centri di Identificazione ed Espulsione attivi in Italia. Fuori il via vai del traffico e la gente che cammina veloce tra gli androni degli alti palazzi. «Paghiamo l’Ici come nei quartieri più costosi, ma non ne possiamo più», ci dice un inquilino. E si sfoga: «I giovani vengono qui fuori a fare casino. La chiamano solidarietà con gli immigrati. Ma battono bastoni sui pali, urlano e sporcano i muri».

Non solo la Circoscrizione 3, tutta la città è un murale «No Cie»: scritte disseminate ovunque dalla stazione dei treni al mercato di Porta Palazzo. Eppure pochi sanno cosa sia la struttura amministrativa gestita dalla Croce Rossa Italiana dove, da gennaio 2011 a luglio 2012, sono transitate circa 2 mila persone.

Migranti trovati senza regolare permesso di soggiorno, ma non solo. Ci sono richiedenti asilo, 135 solo nell’ultimo anno e mezzo. E poi tanta gente che arriva dritta dalla prigione: stime parlano del 40-50% dei trattenuti. «Il circuito carcere-Cie è ormai insostenibile», ha denunciato la consigliera regionale Monica Cerutti (Sel) dopo l’ultima visita al centro. E ha spiegato: «Gli ospiti non capiscono perché dopo aver scontato una pena devono subire un’ulteriore detenzione».

«Ospiti? No, detenuti a tutti gli effetti»
«Entrare o non entrare è una questione di sfortuna», dice Aziz, un giovane nordafricano che dal Cie è fuggito due volte. «Sta tutto nell’incappare in un controllo di polizia ed essere condotti in Questura». Dagli uffici immigrazione a Corso Brunelleschi la via è breve. Ma il trattenimento amministrativo, per decreto dell’allora ministro Roberto Maroni, può durare fino a 18 mesi. «Da noi la permanenza massima è di circa 40 giorni», assicura Antonio Baldacci, colonnello e direttore responsabile del Centro. Si parla degli immigrati come di «ospiti». Però, varcato il cancello d’ingresso, l’impressione è di una struttura di massima sorveglianza. Telecamere e torrette di pattugliamento vegliano le sei aree (quattro maschili e due femminili), chiamate con nomi di differenti colori.

Una sezione, la «bianca», è inagibile e porta i segni del fuoco di una recente rivolta. In ogni camera sette letti, ben ancorati al pavimento, hanno lenzuola fatte di materiali deteriorabili per evitare atti di autolesionismo e fughe. Intorno ad ogni area gabbie metalliche alte fino a sei metri. Fuori di queste, le ronde dei militari. «Le strutture assomigliano in tutto e per tutto a delle carceri», si legge in uno studio coordinato dal professore Alberto di Martino e realizzato dai dottorandi della Scuola Superiore Sant’Anna di Firenze. La ricerca, indirizzata al Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, denuncia: «Il sistema dei Cie non è compatibile con la Costituzione italiana».

Senza documenti e giustizia

Violazione della libertà personale e incertezza del diritto. «L’assenza di paletti prestabiliti genera un sistema non garantista e la giustizia diventa un timone: dove la giri, va», denuncia l’avvocato Dario Cardillo. Un suo assistito, originario dal Marocco, ha avuto il permesso di soggiorno in Italia per nove anni. Dal 2006 ha lavorato, con regolare contratto, come pizzaiolo a Torino. Una figlia di 4 anni e una sorella naturalizzata italiana, non gli sono bastate per evitare il provvedimento di espulsione. «Anni fa aveva commesso un furtarello prima di trovare impiego e un’altra volta aveva dato qualche grammo di hashish a un connazionale», racconta il suo avvocato Cardillo. Che spiega: «E’ stato giudicato socialmente pericoloso, perciò da espellere».

Per i cittadini dell’Unione Europea, la fedina penale sporca non può di per sé giustificare l’adozione di provvedimenti di pubblica sicurezza. Per i cittadini di Stati terzi, specie se sans papier, basta e avanza. «Di fatto nei Cie si crea un sistema di diritto speciale: l’espulsione si colloca in una zona grigia tra diritto amministrativo e diritto penale», aggiunge Guido Savio, avvocato membro dell’Asgi, Associazione di Studi Giuridici sull’Immigrazione. Una ragazza di 25 anni si è rivolta a lui per chiedere la protezione internazionale. In Moldavia era stata vittima di usura: un debito da 3.000 euro da ripagare con interessi del 15%. Fuggita a Torino, ha cominciato a prostituirsi. Poi è finita al Cie e per uscire dalla struttura si è cucita le labbra: sciopero della fame a oltranza. «L’hanno lasciata libera quando non riuscivano più a prendersi cura di lei», racconta l’avvocato.

Vita da Cie: tra corsi di magia e psicofarmaci
L’autolesionismo paga. Sia per dare visibilità al proprio disagio che per cercare di fuggire se ricoverati all’esterno del Cie. «Nel 2011 ci sono stati 100 casi di ingestione di corpi esterni e 56 feriti da arma da taglio», racconta Alberto Barbieri coordinatore dei Medici per i Diritti Umani (Medu). Dai dati della Prefettura emerge che il 35% dei trattenuti ha fatto ricorso a strutture ospedaliere. Più di uno su tre. L’11% per interventi radiologici. E poi un abuso incondizionato di sedativi e psicofarmaci: «Nella mia ultima visita su 120 trattenuti, 40 li assumevano. E questo in un contesto dove lavorano solo due psicologi, senza specialisti psichiatrici», stigmatizza Barbieri. Che spiega: «L’incertezza sulla durata del trattenimento e l’ozio forzato cui sono costretti i migranti non fanno che peggiorare le cose».

Per battere l’inedia dei suoi «ospiti», la Croce Rossa ha pensato alla pet-agility: i trattenuti possono assistere ogni settimana a spettacoli di cani addestrati a saltare gli ostacoli. «Questa iniziativa potrebbe presto essere affiancata dai corsi di magia», aggiunge il colonnello Baldacci. Dal tetto della palazzina d’ingresso un funzionario ricorda la fuga di un trattenuto: «Non capivamo perché si allenasse di continuo. Poi, quel giorno, è stato velocissimo. A saperlo l’avremmo potuto iscrivere alle Olimpiadi con la maglia del Cie». E ride.

Il business della macchina delle espulsioni
Si ride meno se si considerano i costi della struttura. Dal 1999, anno dell’apertura, tra costruzione, ampliamento e gestione, il Cie è costato più di 40 milioni di euro. Lo Stato ne dà ogni anno circa 3 milioni e 650 mila all’ente gestore. La Croce Rossa, pur subappaltando alcuni servizi (tra cui la mensa), impiega una settantina di persone tra medici, infermieri e dipendenti. La macchina delle espulsioni è un business. Che in Italia ha fatto gola a molti: dal consorzio Connecting People (quello dei Cie di Gradisca e Trapani) alla Misericordia di Modena, la confraternita presieduta da Daniele Giovanardi, fratello dell’ex sottosegretario di Berlusconi. Eppure quasi mai enti gestori e istituzioni raggiungono lo scopo dichiarato: l’espulsione coatta.

Dei circa 500 mila migranti irregolari presenti in Italia (Caritas Migrantes) solo una percentuale minima va a finire nei 13 Centri di identificazione ed espulsione. Una frazione irrisoria al Cie Brunelleschi. Per Aziz, il giovane nordafricano fuggito per due volte dal Cie, il meccanismo è semplice: «Una macchina per andare avanti ha bisogno di tanta benzina, quella benzina siamo noi immigrati. I pezzi della macchina sono invece tutti quelli che sulla nostra pelle ci lavorano, tutto quello che ci sta intorno». Ma a Torino, intorno al Cie Brunelleschi, a farsi le domande sono rimasti solo i bambini.

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