Servono visioni generali su cui fondare le scelte Dagli amori al lavoro, sino alle questioni bioetiche M olte persone vivono senza farsi troppe domande, ma è una strada sempre meno praticabile (a patto di non trascorrere l’esistenza con la testa dentro un sacco o autoreclusi in un reality). Ideologie, valori, riferimenti che fino alla metà del secolo scorso orientavano le nostre azioni all’interno di un assetto condiviso non ci vengono più in soccorso al primo spaesamento; la loro crisi «costringe ciascuno di noi a decidere da solo cosa fare, senza potersi più appellare ad un’autorità esterna, ma potendo contare solo sulle proprie specifiche competenze», per usare le parole di Moreno Montanari in La filosofia come cura, appena uscito da Mursia.
Servono visioni generali su cui fondare le scelte Dagli amori al lavoro, sino alle questioni bioetiche M olte persone vivono senza farsi troppe domande, ma è una strada sempre meno praticabile (a patto di non trascorrere l’esistenza con la testa dentro un sacco o autoreclusi in un reality). Ideologie, valori, riferimenti che fino alla metà del secolo scorso orientavano le nostre azioni all’interno di un assetto condiviso non ci vengono più in soccorso al primo spaesamento; la loro crisi «costringe ciascuno di noi a decidere da solo cosa fare, senza potersi più appellare ad un’autorità esterna, ma potendo contare solo sulle proprie specifiche competenze», per usare le parole di Moreno Montanari in La filosofia come cura, appena uscito da Mursia. La cultura dell’autonomia, dell’indipendenza ci ha resi più liberi e più felici? Ciascuno ha una propria risposta da dare. Il sociologo francese Alain Ehrenberg, ne La fatica di essere noi stessi, raffredda ogni eccessivo entusiasmo: quest’uomo riscattato dalla morale che si forgia da sé gli appare «intimamente più fragile, è stremato dal suo stesso essere sovrano e se ne lamenta».
Siamo chiamati ad esprimerci su tutto. Sì o no al prolungamento della vita fino a quanto la medicina lo rende possibile, anche se non sappiamo cosa ne sia rimasto, di quella vita? Sì o no all’avere figli comunque, a dispetto della salute e dell’età, e solo bambini concepiti con il certificato di sana e robusta costituzione? Sì o no allo sforzo quotidiano di condividere lo stesso spazio con chi, non avendo la nostra cultura e religione, è diverso? Sono questioni che riguardano da vicino la vita di ciascuno.
«Nel passaggio alla modernità la dipendenza dalla decisione aumenta — ribadisce Niklas Luhmann, filosofo e sociologo tedesco, ne La società del rischio —. Molto di ciò che prima veniva più o meno da sé, nel corso della vita, è oggi richiesto come decisione, e questo su uno sfondo di possibilità di scelta più ampio». Ma chi insegna a decidere? La scienza ci spalanca un universo di possibilità, ma poi ci lascia soli quando si tratta di scegliere da che parte andare. La medicina ha a che fare ogni giorno con la vita e con la morte. Ma possiamo parlare di vita e di morte solo utilizzando il linguaggio della medicina? Dopo il caso di Eluana Englaro, per 17 anni in stato vegetativo interrotto da sentenza giudiziaria, nessuno può più illudersi. La tecnologia è un alleato, ma i patti devono essere chiari: «La tecnica non è né buona né cattiva, è la ragione umana a dover integrare la scienza in una visione razionale del mondo», sintetizza lo storico Aldo Schiavone.
Certo, c’è scelta e scelta, dice Giulio Giorello: «Alcune riguardano questioni di vita quotidiana, come la scelta di una professione o quelle dentro la professione stessa. Vi sono poi le scelte dei propri amori, dei problemi che si vogliono studiare e possibilmente risolvere, e persino dei propri miti. Vi può anche essere la scelta di una fede, o di nessuna. Infine, vi è una scelta particolare, la scelta di scegliere — e questa da oltre duemila anni ha un nome: filosofia». Sottrarsi alla «scelta di scegliere» è sempre più complicato. Oggi bisogna scegliere. In cosa credere, cosa tenere, cosa buttare. «Tra le arti del vivere liquido moderno — ricorda Zygmunt Bauman — sapersi sbarazzare delle cose diventa più importante che non acquisirle».
È il momento, dunque, della filosofia? Verrebbe da rispondere sì, se non fosse che poi, nella realtà, tutto questo interesse per un approccio «filosofico» alla vita non si vede. Le scienze ne hanno fagocitato i temi tipici, appropriandosi delle domande su cui la filosofia ha costruito se stessa e il proprio senso, e accreditandosi come uniche in grado di dare risposte veloci e soddisfacenti. E sul fatto che siano veloci, le risposte, possiamo essere tutti d’accordo. Sul soddisfacente, invece, si avvertono scricchiolii.
Agli studenti che chiedono «ma la filosofia a cosa ci servirà?» Roberta de Monticelli risponde di diffidare della parola «servire, che ha un significato buono e uno cattivo»: «In fondo una delle cose che si potrebbero rispondere e che la filosofia non serve mai, ma domina. Domina le menti». È bisogno di chiarezza, a partire dal rapporto con se stessi.
La filosofia «è una cosa pensierosa», rispondevano invece i bambini delle elementari interrogati da Anna Rita Nutarelli e Walter Pilini. Addentrarsi nelle loro riflessioni, raccolte in un volume di Morlacchi, diverte e illumina sull’appeal ai minimi termini che la disciplina può vantare presso i giovanissimi: «Un filosofo me l’immagino vecchio con una casa piena di libri e tutta impolverata piena di ragnatele e disordinata senza un posto pulito in tutta la casa — dice il piccolo Alberto —. Un filosofo lo vedo strano, mai a parlare con qualcuno o a essere popolare stando insieme agli altri».
Comunque la si veda, la filosofia è la capacità di indagare il senso delle cose e «il suo contrario è l’incuria, il disimpegno, la deresponsabilizzazione propria di chi rinuncia al gravoso ma indispensabile compito di prendersi cura di sé», chiude Montanari. José Ortega y Gasset la vedeva permeare il mondo come l’aria, senza che nessuno potesse sottrarsene: «L’uomo vive a partire da e in una filosofia. Questa filosofia può essere erudita o popolare, propria o altrui, vecchia o nuova, geniale o stupida; ma in ogni caso il nostro essere affonda sempre saldamente le sue radici viventi in una filosofia. Gli uomini per la maggior parte non se ne capacitano perché questa filosofia di cui vivono non appare loro come risultato di uno sforzo intellettuale, cioè dello sforzo che essi o altri hanno fatto, ma come la “pura verità” vale a dire la “realtà stessa”». Bauman ci ha avvertiti: nella società liquida «le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure». Se anche qualcosa ha funzionato in passato, non è detto che funzionerà ancora. I pensieri di ieri potrebbero non servirci per risolvere le questioni di oggi. C’è urgenza di pensieri nuovi.
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