A Gaetano Salvemini pare solo «un’opera buffa» ispirata da «pezzenti intellettuali e morali», come giudica i primi parlamentari fascisti. Più o meno così la liquidano parecchi altri esponenti della sinistra, che parlano di «farsa», «teatrale raduno di scalmanati», «adunata di inutili idioti». Ma in quello stesso campo politico un uomo comprende subito con piena lucidità , anche se quasi in solitudine, il 28 ottobre 1922, che la marcia su Roma è l’atto di nascita di una dittatura destinata a umiliare ogni libertà .
A Gaetano Salvemini pare solo «un’opera buffa» ispirata da «pezzenti intellettuali e morali», come giudica i primi parlamentari fascisti. Più o meno così la liquidano parecchi altri esponenti della sinistra, che parlano di «farsa», «teatrale raduno di scalmanati», «adunata di inutili idioti». Ma in quello stesso campo politico un uomo comprende subito con piena lucidità , anche se quasi in solitudine, il 28 ottobre 1922, che la marcia su Roma è l’atto di nascita di una dittatura destinata a umiliare ogni libertà . E che larghe fasce del potere e della società avrebbero avuto atteggiamenti indifferenti, se non di indulgente saldatura con il regime nascente, considerandolo una controrivoluzione preventiva, un provvidenziale strumento per «portare l’ordine», dato che temono più i rossi dei neri. Quell’uomo è Giacomo Matteotti, giovane ma già carismatico leader del Partito socialista unitario, il più implacabile avversario di Mussolini.
Mentre l’opposizione mostra segni di divisioni e sfaldamento, e mentre popolari, democratici e liberali sembrano pronti a concedere un’apertura di credito al Duce (secondo il pragmatico principio giolittiano di «parlamentarizzare» i movimenti rivoluzionari), Matteotti scrive a Filippo Turati: «Se il governo o il re avessero voluto resistere, sarebbe stato facilissimo. Si dice che il re dapprima avesse consentito allo stato d’assedio, e solo poi abbia pensato altrimenti. Si dice che i comandi d’esercito abbiano risposto che essi erano pronti a resistere solo se il governo voleva fare sul serio… ciò che naturalmente Facta non voleva». Racconta di «molti studi distrutti, una ventina di morti, indifferenza pubblica. Viltà generale alla Camera… e tutti pronti a entrare nel ministero… con lo strazio nel cuore». E sollecita la direzione del partito, di cui è appena stato eletto segretario, a schierarsi: «L’unica questione da dibattere è se l’atteggiamento nostro debba essere apertamente avverso o se bisognerà, per vivere, vellutare la nostra opposizione, considerare il fatto rivoluzionario esclusivamente dannoso alla democrazia e portarci sui problemi concreti».
Lui è, senza compromessi, per «la più ferma e dignitosa resistenza». Il 9 novembre 1922 denuncia in una lettera a Claudio Treves «tutto un movimento di circuizione, esercitato su molti dei nostri uomini, dagli emissari del dittatore». L’obiettivo dei fascisti è volto «a piegare, a consentire, a permettere il più comodo sviluppo della dittatura». E avverte che in molti casi, per riuscire nell’intento, non servono ormai più le manganellate. Bastano «la semplice minaccia del terrore, la corruzione degli elementi più resistenti, la prigionia morale di chiunque dei nostri sarebbe capace di agire». Almeno, incita con un desolato paradosso, «aspettiamo a venderci, quando ci pagheranno un prezzo conveniente, cioè una vera e non una falsa garanzia di libertà».
È quel che invece fa subito la parte più opaca del Paese, per vigliaccheria o per calcolo o per disprezzo verso le istituzioni. Attribuendo a Mussolini un consenso in crescita progressiva, incrinato soltanto per pochi mesi dopo l’assassinio di Matteotti (10 giugno 1924), compiuto da una banda di squadristi e di cui il Duce si dichiara responsabile morale. I prodromi della tragica avventura, insieme a nuovi elementi per un profilo intimo del martire, li troviamo nell’Epistolario 1904-1924 (Edizioni Plus, pp. 284, 30), decimo volume delle opere matteottiane curate dallo storico Stefano Caretti. Ricco di documenti inediti che gettano nuova luce su quei giorni difficili e sulle fratture interne al socialismo, il libro ha tra l’altro il merito di fare giustizia sul preteso massimalismo di Matteotti. Una questione sempre aperta, visto che ancora di recente lo si è dipinto con una doppia faccia: estremista nel suo Polesine e democratico in Parlamento (e il sottinteso è che in fondo è stato vittima di «un incerto del mestiere di demagogo», come disse in piena euforia mussoliniana il giurista Vincenzo Manzini). Per sincerarsi della verità, basta rileggere una sua lettera del 16 aprile 1924 alla direzione del Pci, che vuole organizzare una manifestazione unitaria. No, risponde Matteotti, «restiamo ognuno quel che siamo. Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è quindi nulla in comune tra noi e voi».
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