Mattei e gli americani: la pace dopo la bufera

La tensione era calata quando il manager morì

La tensione era calata quando il manager morì   C’ è un rapporto di Egidio Ortona, ambasciatore italiano a Washington nei primi anni del Dopoguerra, nel quale di Enrico Mattei si dice che, anche se «il personaggio non potrebbe essere più complicato, poliedrico, nodoso» e pur potendo il suo carattere apparire «combattivo, contratto, incupito», lui, Ortona, lo vedeva «spesso aperto e scherzoso» e, seppur «guardingo», in realtà desideroso di «dimostrare che non ha da lamentare alcun torto di rilievo nei confronti degli americani e che è pronto alla collaborazione». D’altra parte, Ortona sosteneva di aver ricevuto una confidenza dell’addetto all’ambasciata americana a Roma, James David Zellerbach, il quale gli aveva detto essere il dipartimento di Stato «alquanto rilassato» nei riguardi di Mattei, anche perché le holding petrolifere statunitensi avevano «la certezza che il presidente dell’Eni non avrebbe potuto sviluppare alcun programma serio per mancanza di finanziamenti». Ma le cose andarono diversamente. Mattei riuscì a farcela, i governi italiani (chi più, chi meno) lo assecondarono e le tensioni con gli Stati Uniti si moltiplicarono. Finché…

L’esplosione aerea del 27 ottobre 1962 a Bascapè non solo ha interrotto bruscamente la vita di Enrico Mattei (assieme a quella del giornalista William McHale, che lo stava intervistando, e del pilota del velivolo, il capitano Irnerio Bertuzzi), ma ne ha sequestrato l’immagine storica, avviluppandola in un groviglio di sospetti, supposizioni, illazioni, accompagnate da tutti i tradizionali ingredienti di quei gialli italiani che rientrano nella sinistra categoria dei «misteri irrisolti».
Ciò che aveva fatto Mattei prima di quel tragico giorno è stato in qualche modo messo da parte, per lasciare spazio agli elementi destinati a «fare luce» sui «colpevoli» del suo più che probabile assassinio. Con il risultato che, come per altre vicende analoghe, cinquant’anni dopo la tragedia, di luce non ne è stata fatta, ideatori e autori del misfatto non sono stati individuati e il giallo è tuttora irrisolto. Ma — con qualche eccezione, come il bel volumetto di Nico Perrone, Enrico Mattei, pubblicato nella collana «L’identità italiana» del Mulino — l’immagine complessiva del fondatore dell’Eni è stata, per così dire, sequestrata e confinata in quella sorta di museo delle cere, frequentato quasi esclusivamente da dietrologi e appassionati di intrighi. Una tra le statue delle grandi vittime dei complotti d’Italia.
Adesso Rizzoli pubblica un libro — in cui per la prima volta sono raccolti tutti i suoi Scritti e discorsi e che si avvale (oltre che di una breve prefazione di chi scrive) di saggi di Valerio Castronovo, Daniele Pozzi e Mario Pirani — che si propone di tornare alla figura piena di Enrico Mattei, liberi dall’ossessione di Bascapè. Il volume con gli Scritti e discorsi di Mattei prende idealmente le mosse da quel che di lui scrisse, sul «New York Times», Cyrus L. Sulzberger all’indomani della morte: «Per quanto fosse conosciuto soltanto come il capo del complesso monopolio dei combustibili del suo Paese, era forse l’individuo più importante in Italia. Tuttavia egli preferiva rimanere dietro le quinte, nel ruolo di un’eminenza grigia. La sua influenza spaziava nella politica italiana, nell’equilibrio della Guerra Fredda fra Oriente e Occidente e, indirettamente, nei rapporti diplomatici di un’importante potenza della Nato con il blocco comunista e i neutrali afro-asiatici». Fu l’uomo che «influenzò più di chiunque altro il boom del Dopoguerra conosciuto come il miracolo italiano», stabilì il settimanale «Time». È la verità?
L’Agip era stata costituita nel maggio del 1926, in pieno regime fascista. Trascorsi 19 anni, tre giorni dopo il 25 aprile del 1945, il trentanovenne Mattei — già comandante partigiano «bianco», decorato con la Bronze Star dal generale Clark, aveva sfilato a Milano, nel giorno della Liberazione, a fianco di Ferruccio Parri, Luigi Longo e Raffaele Cadorna — ne divenne, su designazione del Comitato di liberazione nazionale per l’alta Italia, «commissario straordinario». Sulle prime pensò che si trattasse di un incarico inadeguato al suo rango, ma presto si convinse del contrario. Persuase Alcide De Gasperi (all’inizio molto dubbioso) che l’Italia poteva giocare un’importante partita nel campo dell’energia, lasciò l’incarico di parlamentare democristiano e — superando difficoltà inimmaginabili — riuscì a costruire l’Eni. Tappa fondamentale di questo tragitto, la scoperta — alquanto enfatizzata — di un giacimento di metano a Cortemaggiore nel 1949. Con tanto di visite in loco del ministro delle Finanze Ezio Vanoni e, l’anno successivo, dello stesso De Gasperi.
Nel suo saggio, Valerio Castronovo ricorda che fin dal 1942 Mattei era stato introdotto da Marcello Boldrini nel cenacolo del cattolicesimo progressista, di cui facevano parte Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Ezio Vanoni, Giuseppe Spataro, Orio Giacchi, Enrico Falck. Ma poi Castronovo elenca il numero davvero cospicuo dei «nemici» che lo osteggiarono: i liberali Federico Ricci, Epicarmo Corbino, Giovanni Malagodi. Il ministro socialista dell’Industria Rodolfo Morandi. Il direttore generale della Edison Giorgio Valerio. A causa dell’avversione di Valerio, però, Luigi Einaudi, che non vedeva con favore l’ipotesi di una liquidazione dell’Agip a favore della Edison, ebbe occhi benevoli nei confronti di Mattei. Il Pci aveva chiesto invece che si nazionalizzasse l’Agip, «ciò che, a giudizio di Mattei, avrebbe significato cadere dalla padella nella brace, nelle mani di una burocrazia statale che egli considerava incompetente e farraginosa». Ma, secondo Castronovo, c’era un motivo in più alla base di questa antipatia dei comunisti nei confronti dell’uomo dei petroli: De Gasperi aveva affidato a Mattei il compito di «affrancare la Resistenza dal monopolio politico dei partiti di sinistra», cosa che l’ex comandante partigiano cattolico aveva fatto nel più efficace dei modi, provocando la fuoriuscita dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia della Federazione italiana volontari della libertà. Con questa operazione, scrive Castronovo, Mattei fu poi in grado di assicurare a De Gasperi nell’autunno 1950, dopo lo scoppio della guerra di Corea, la mobilitazione delle formazioni partigiane bianche e di quelle degli «autonomi» nel caso di un moto insurrezionale da parte comunista, come si temeva negli ambienti governativi.
Nonostante questa benemerenza atlantica, che gli provocò un’iniziale antipatia dei comunisti, gli fu avverso anche il socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo, pur sensibile alle influenze statunitensi. Lo guardò con sospetto pure il repubblicano Ugo La Malfa (avrebbe voluto inquadrare il nuovo ente nell’ambito dell’Iri). Ma soprattutto gli fu nemico l’anziano fondatore del Partito popolare Luigi Sturzo. Sturzo cavalcò le difficoltà in cui Mattei venne a trovarsi dopo la scoperta nell’ottobre 1953, da parte dell’americana Gulf Oil, di un giacimento di petrolio nel Ragusano «tanto più eclatante», scrive Castronovo, «in quanto per la prima volta era stata rinvenuta nel sottosuolo italiano una consistente quantità di greggio, e non un “ruscelletto” tipo quello di Cortemaggiore, come andavano dicendo con scherno gli antagonisti dell’Eni». Sturzo esultò: si doveva alle «trivelle americane» se si era aperta la strada per la rinascita dell’isola, «ciò che sarebbe avvenuto sicuramente, a suo dire, anche altrove nel Sud, qualora ci si fosse affidati alle società statunitensi». Ebbe in questo contesto un significato politico e fu di indubbio aiuto a Mattei che il Politecnico di Torino gli conferisse una laurea honoris causa, riconoscendo l’importanza del metano per la crescita industriale del Paese. Dalla parte di Mattei si schierarono, oltre a Ezio Vanoni che fu sempre il suo grande protettore, il presidente della Repubblica (dal 1955) Giovanni Gronchi, il presidente della Fiat Vittorio Valletta, il presidente della Banca commerciale italiana Raffaele Mattioli, il direttore della Banca nazionale del lavoro Imbriani Longo.
Nel 1953 De Gasperi — dopo la sconfitta della cosiddetta «legge truffa» — iniziò a ritirarsi dalla vita politica (sarebbe morto nell’estate del 1954). A Mattei rimase Vanoni. Da quando, con l’appoggio di Amintore Fanfani, aveva sostituito Giuseppe Pella nelle vesti di massimo ispiratore della politica economica italiana (estate del 1951), Ezio Vanoni — ha scritto Giorgio Galli in Enrico Mattei: petrolio e complotto italiano (Baldini Castoldi Dalai) — fu sempre il maggior sostenitore di Mattei nei confronti dei vari governi successivi. Il 24 aprile del 1952, Vanoni si era esposto alla Camera per sostenere che l’esperienza degli ultimi anni stava a dimostrare «l’efficienza di una struttura produttiva, quando gli interessi dello Stato sono diretti da uomini che dedicano tutta la propria attività, tutta la propria intelligenza, al bene comune». In quell’occasione il relatore al progetto di legge sull’istituzione dell’Eni, il democristiano Franco Varaldo, molto vicino allo stesso Vanoni, definì «inconcepibile» che «lo Stato lasciasse perché fosse sfruttato dai privati» un patrimonio che l’Agip aveva reperito «col danaro pubblico e la bontà dei suoi dirigenti».
Vanoni e Mattei avevano convinto il ministro dell’Industria del tempo (il liberale e futuro radicale Bruno Villabruna) ad avvicinarsi progressivamente alla decisione di confermare all’Eni il monopolio nella Valle Padana, per estenderlo addirittura, anche se con qualche limite, alle altre regioni. Nel 1955, a Villabruna succedette come ministro dell’Industria il liberale Guido Cortese in un governo presieduto da Antonio Segni. «Mozioni e interpellanze parlamentari, con l’intento di estromettere Mattei», ricostruisce Castronovo, «vennero moltiplicandosi sia durante il governo di Mario Scelba (tanto più che si conosceva la sua personale devozione nei riguardi di Sturzo) sia nel corso di quello successivo, dal luglio 1955, di Antonio Segni, nell’ambito del quale ricopriva l’incarico di ministro dell’Industria ancora una volta il liberale Guido Cortese».
Mattei si preoccupò non poco. Ma, l’8 novembre del 1955, scese in campo con un articolo sul «Mondo» uno studioso di grande prestigio (anche lui, come Villabruna, futuro esponente radicale): Ernesto Rossi. Rossi era stato l’uomo che, su suggerimento dell’americano Paul Rosenstein Rodan, aveva ideato il viaggio negli Stati Uniti del giurista Giuseppe Guarino e dell’economista Paolo Sylos Labini per studiare i regolamenti in materia mineraria vigenti negli Usa e in Canada. Dal rapporto finale era uscita suffragata la tesi che si dovessero riconoscere all’azienda di Stato adeguate prerogative. «Il ministro Cortese», scriveva adesso Ernesto Rossi sul «Mondo» di Mario Pannunzio, «ha proposto un sistema ibrido in cui l’Eni continuerebbe a fare a spintoni con i privati, per ottenere permessi di ricerca, e a concorrere con i privati nelle gare per la concessione dello sfruttamento; un tale ordinamento indurrebbe l’Eni a interferire nella pubblica amministrazione… per accrescere il più possibile la sua riserva fuori dalla Valle Padana: lo spingerebbe inoltre ad allearsi con i gruppi monopolistici italiani e stranieri per raggiungere più facilmente i propri obiettivi aziendali». Ciò detto, proseguiva Rossi sul «Mondo», «quel che importa è conservare gelosamente all’Eni il suo carattere pubblicistico, vietandogli tassativamente, per legge, di associarsi con partecipazioni azionarie ai privati». Divieto che avrebbe consentito al governo «di usare questa holding come genuino strumento della sua politica nel campo degli idrocarburi». Secondo Galli, è su queste considerazioni di Ernesto Rossi, «di scuola einaudiana», che Mattei fonderà la «filosofia» dell’Eni come azienda a «carattere pubblicistico» e di fatto otterrà, con la legge del 1957, il monopolio della ricerca e dello sfruttamento degli idrocarburi per l’Italia intera.
A questo punto Mattei appare molto potente. Ha l’appoggio del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che scrive addirittura una lettera «privata» al presidente degli Stati Uniti Eisenhower per proporre che all’Italia sia affidato un ruolo di primo piano sullo scacchiere mediorientale. Nei diari di Antonio Segni (all’epoca presidente del Consiglio) recentemente pubblicati dal Mulino, si racconta come il ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino, si oppose all’iniziativa, considerando quelle di Gronchi «opinioni personali» in contrasto con la linea e con l’azione dell’esecutivo, e come lui stesso, Segni, dovette faticare non poco per comporre il dissidio. Al presidente dell’Eni non va giù che sia stata bloccata l’iniziativa di Gronchi. Il 2 maggio del 1957 Segni registra nelle sue note: «Sento Mattei che sempre di più si manifesta infuriato!».
In quegli anni si iniziò, da più parti, ad accusare Mattei di essere una sorta di principe della corruzione, per il fatto che diceva apertamente di aver usato i partiti, tutti i partiti, «come fossero dei taxi». Castronovo ridimensiona i termini della questione relativizzandoli: «Sia per superare gli sbarramenti che incontrava lungo la strada, sia per vivere al riparo da pericolosi colpi bassi», scrive, «Mattei s’avvaleva con spregiudicatezza di quanti potessero comunque fare al caso suo (non importa se appartenessero a questo o quel partito), e si serviva in modo sistematico di vari espedienti ed elargizioni sottobanco; d’altronde, era quanto facevano con assai più dovizia di mezzi le principali società petrolifere che l’Eni doveva fronteggiare».
Le compagnie petrolifere americane, in ogni caso, per tutto il corso degli anni Cinquanta lo avversarono con modalità inaudite. La Standard Oil Company del New Jersey, nel gennaio del 1951, mandò il proprio rappresentante in Italia, Ralph B. Bolton, da De Gasperi per dargli «un avvertimento». Un mese dopo, per tornare su quelle minacce, Bolton mandò a De Gasperi copia del seguente telegramma, che aveva spedito al ministro dell’Industria Giuseppe Togni: «Il trattamento preferenziale Agip verrebbe considerato da azionisti americani quale vera et propria azione di discriminazione non consentita da trattato amicizia et commercio stipulato nel 1949 fra governi italiano et americano costringendoli chiedere tutela et appoggio autorità Washington».
Il nuovo presidente statunitense Dwight D. Eisenhower lasciò intendere in ogni modo di essere schierato a fianco delle «sue» compagnie petrolifere. Le ostilità nei confronti di Mattei furono molteplici, in Italia e nel mondo. Soprattutto all’epoca in cui fu ambasciatrice americana a Roma Clare Boothe Luce (1953-1957), moglie dell’editore Henry R. Luce. In particolare nel 1954 furono pubblicati articoli veementi contro la politica industriale di Mattei e contro la sua persona da «Fortune», «Newsweek», «Time» e «The New York Herald Tribune». Il «New York Times» giunse a definire «un attentato alla sicurezza del mondo libero» la decisione di Mattei di vendere all’Urss pompe e tubature, che nella circostanza venivano chiamate «attrezzature di carattere strategico».
Nel 1956 Mattei decise di far raccogliere tutti gli articoli di giornale che, dal 1949 in poi, erano stati scritti contro di lui. Quando morì, l’antologia — a cui fu dato il titolo Stampa e oro nero — consisteva di ben 36 volumi. Mattei, sul modello di grandi imprenditori statunitensi — e, in Italia, di Adriano Olivetti —, reagì a queste campagne ostili con una mobilitazione di intelligenze inedita per i suoi tempi (e forse anche per quelli successivi): fondò un giornale, «Il Giorno», e un’agenzia di stampa, l’Agi, che fecero scuola per la loro modernità; affidò a un grande regista, Joris Ivens, la realizzazione di un documentario, L’Italia non è un Paese povero (1960); un altro film — che sarà completato dopo la sua morte — lo fece girare da un futuro maestro del cinema, Bernardo Bertolucci. L’impostazione del lavoro per catalogare gli articoli di Stampa e oro nero fu demandata a un importante storico cattolico, Gabriele De Rosa. Per la pubblicità si affidò al poeta Leonardo Sinisgalli. Volle con sé giovani del calibro di Sabino Cassese, Giorgio Ruffolo, Manin Carabba, Mario Pirani, Giorgio Fuà, che era stato collaboratore del massimo esponente del laburismo svedese, Gunnar Myrdal. A Ruffolo e Pirani fu affidato il delicato incarico di tenere i rapporti con il Fronte di liberazione nazionale algerino.
Questo mentre Mattei otteneva concessioni di ricerca petrolifera in Somalia, Egitto, Iran, Marocco, Libia, Sudan, Tunisia. Poi avviava rapporti con l’Unione Sovietica, la Cina e tesseva una rete di contatti internazionali sempre più vasta. Offrendo accordi che facevano affluire nelle finanze dei Paesi contraenti il 50 per cento, talvolta il 75 per cento degli introiti. E provocando l’ira delle sette principali compagnie petrolifere mondiali nonché degli Stati Uniti, quanto meno fino all’inizio (o poco prima) dell’era Kennedy. Castronovo ricorda (definendola una «guasconata») la prolusione tenuta da Mattei a Piacenza il 12 settembre del 1960, allorché, nel corso del rituale convegno internazionale sugli idrocarburi, il presidente dell’Eni aveva asserito che l’esosa politica dei prezzi del trust anglo-americano per massimizzare i profitti «aveva i giorni contati». E questo «non solo per la comparsa di un crescente stuolo di operatori indipendenti, ma perché i governi dei Paesi produttori rivendicavano adesso piena sovranità nell’utilizzo delle loro risorse». In sintonia con i nuovi tempi, la sua corsa sembrava non dovesse avere mai fine: nei primi anni Sessanta l’Eni aveva 25 squadre geologiche e geofisiche operanti in Italia, altre 25 ne aveva all’estero, 75 impianti di perforazione (metà da noi, metà fuori dal nostro Paese), una piattaforma mobile per perforazioni sottomarine, il «Perro negro», capace di operare su fondali fino a 35 metri per pozzi profondi anche sette chilometri.
Dicevamo che i rapporti con gli Stati Uniti, dapprincipio di grande reciproca ostilità (tra le carte di Eisenhower è stato ritrovato un rapporto della Cia in cui si diceva che il presidente dell’Eni pregiudicava «fattori economici del maggior interesse per gli Stati Uniti»), iniziarono a modificarsi quando, nel 1961, fu chiamato a guidare l’America John Fitzgerald Kennedy. Già il 1° marzo di quell’anno, Mattei incontrò Averell W. Harriman, ambasciatore itinerante del presidente degli Stati Uniti. In tema di Terzo Mondo parlarono di quello che Mattei di lì a poco avrebbe confidato a Gilles Martinet perché lo pubblicasse su «France Observateur»: «Con la guerra l’Italia ha perduto le sue colonie. Certuni pensano che sia stata una sventura; è, in realtà, un immenso vantaggio. È perché non abbiamo più colonie che siamo ben accetti in Iran, nella Repubblica Araba Unita, in Tunisia, in Marocco, nel Ghana. Non vedo perché dovremmo compromettere questa posizione associandoci in un’operazione (lo sfruttamento del greggio del Sahara da parte di francesi, inglesi e americani) che, tutti lo ammettono, non potrà essere indefinitamente continuata sotto la sua forma attuale». Atteggiamento che aveva provocato entusiasmo nei Paesi terzi. In un rapporto di Massimo Magistrati, direttore degli affari economici al dicastero degli Esteri, è scritto: «Il nome di Enrico Mattei comincia a diventare magico… non sono pochi i rappresentanti dei Paesi arabi i quali vorrebbero essere messi in diretto contatto con lui». Ma torniamo al colloquio con l’emissario di Kennedy. Harriman, dopo una disamina molto franca sull’Africa, sull’Urss, sulla Cina, a un certo punto dirà a Mattei: «Lei vede molte cose con limpidezza e sa guardare lontano».
Siamo adesso in presenza di un Mattei molto diverso. E di un’America diversa con lui. Il 1° gennaio del 1962 il suo nome ricompare nei diari di Antonio Segni (che di lì a qualche mese diverrà presidente della Repubblica) in questi termini: «Ho parlato l’altro giorno con Enrico Mattei… egli verrebbe volentieri negli Stati Uniti e sarebbe disposto a intendersi anche con le compagnie petrolifere americane», pur chiedendo «un atto di buona volontà di dette compagnie». Il 17 marzo del 1962 si parlò di Mattei addirittura in una riunione del dipartimento di Stato americano (la documentazione in merito è stata recentemente declassificata), dove venne presa in esame «la possibilità di incoraggiare una o più tra le maggiori società petrolifere occidentali ad addivenire ad un accordo» con l’Eni e, a intendere che non si trattava di chiacchiere, furono fatti i nomi della Standard Oil Company del New Jersey e della Socony-Mobil Oil Company come quelle che «potrebbero essere interessate a prendere in considerazione tale accordo».
Che fosse opportuno stemperare le tensioni tra le «sette sorelle» e l’Eni, ricorda Castronovo, «era convinto per primo il rappresentante della filiale della Esso e presidente dell’Unione petrolifera italiana Vincenzo Cazzaniga». Le due massime autorità della Fiat, Vittorio Valletta e Gianni Agnelli, ebbero una riunione, il 15 maggio, con il presidente Kennedy, riunione nel corso della quale chiesero di «avere riguardo per la persona di Mattei». Valletta ripropose il tema in un successivo incontro all’Italian Desk del dipartimento di Stato e in un colloquio con il responsabile della Cia John McCone. Per rendere più fluidi i rapporti tra Eni e Usa — nonostante un fruttuoso incontro tra Mattei e il vice Primo ministro sovietico Aleksej Kosygin — fu attivato l’ambasciatore americano a Roma Frederick G. Reinhardt e, ancora più in alto, si occuparono della questione il segretario di Stato Dean Rusk e i sottosegretari George C. McGhee e George Ball. Quest’ultimo avrebbe incontrato Mattei il 22 maggio del 1962. La distensione con gli Stati Uniti era avviata. Ed è in quel contesto di distensione con gli Stati Uniti che Mattei morì nell’«incidente» aereo di Bascapè.

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