E Vendola pensa al passo indietro “Se diventano il congresso Pd allora non sono il mio posto”

Il leader Sel avverte: la nostra non è la strada di Matteo 

Il leader Sel avverte: la nostra non è la strada di Matteo 

TORINO. NICHI, pensaci bene. Gli battono pacche sulla spalla, gli mettono in tasca biglietti. Pensaci, Nichi. Se quelle diventano le primarie del Pd, una specie di congresso, tu che ci fai là in mezzo.

METALMECCANICI di Mirafiori, sindaci della Val di Susa, studenti dei movimenti universitari. Cinquecento persone ad ascoltare Vendola, domenica notte, sull’argine del Po. Duecento in piedi. Una folla, al parco Michelotti, festa Fiom. Se i numeri contano, e in certi casi contano, sono più del doppio di quelli che alla stessa ora siedono ad ascoltare il sindaco Fassino alla Festa del Pd, qui a Torino. Ci si scambiano foto sui telefoni in diretta, per il confronto. Partita vinta. E però. Nichi, attento: o vinci e vai al ballottaggio, oppure cosa fai il terzo dopo Renzi e Bersani? «Ma quale terzo. Se corro è per vincere». Come se? «Non ho mica deciso. Vediamo. Le prossime due settimane sono decisive. Il 6 ottobre si definiscono le regole della competizione. Certamente non mi sfilo per convergere su Bersani, ci mancherebbe altro. Ma certo che se diventano il congresso del Pd, queste primarie, non sono il mio posto».
Vista da qui, all’una di notte dopo due ore di dibattito serrato e applauditissimo con Maurizio Landini, leader Fiom, la questione sta in questi termini: più la platea delle primarie si affolla di candidati Pd — dopo Renzi e Bersani Puppato, forse Civati, forse Boeri, forse Spini — più Nichi Vendola è tentato di sedersi sull’argine del fiume ad aspettare. Che tanto, eventualmente, il campo della sinistra si definirà dopo: se vince Renzi «sarà chiaro che quello è un progetto di destra sostanziale, e l’area della sinistra ne resterà tutta fuori. Se vince Bersani per governare avrà
bisogno di noi e sarà lì che noi porteremo sul tavolo la nostra agenda. Perchè non è di alleanze che è importante parlare, ma di quale progetto di governo. Qual è il soggetto politico che può portare al governo un programma che con chiarezza dica questo: bisogna
cambiare la riforma delle pensioni, ripristinare l’articolo 18, cambiare la legge 30 fabbrica di precariato, palude in cui precipita il senso della vita di generazioni intere. L’abrogazione della Bossi-Fini, una legge sulla rappresentanza sindacale, una sul testamento biologico, la riforma della legge 40 sulla fecondazione assistita, il diritto per le coppie di fatto di fare le loro scelte di vita, l’investimento sulla ricerca e sulla scuola come motori di sviluppo e crescita. Ecco, io voglio un soggetto politico che faccia questo. L’alleanza col Pd mi interessa se è la via per arrivare qui. Non ho certezza del risultato, ma non vedo per ora un’altra strada. Mi sono stancato di perdere bene. La stagione del miglior perdente si è chiusa.
Ora voglio vincere e governare. Non ho firmato una cambiale in bianco con Bersani, ma voglio vincere. No, vi sbagliate: non ho detto che è meglio vincere male che perdere bene. Ho detto: vincere, e farlo bene, e portare le nostre ragioni al governo del paese».
Parole che esplodono come bombe nella platea di operai come Luisa Murgia, Fabio Di Gioia, Luigi Russo seduti in prima fila. Vincere, in specie dal referendum di Marchionne in poi, è un verbo caduto in disuso, difficile anche da pensare. «Non possiamo più fare attività sindacale in fabbrica — dice Fabio — non possiamo usare le bacheche dobbiamo riunirci in locali esterni e fuori dall’orario di lavoro. Siamo clandestini ». Luigi, in Fiat dal ‘75, reparto carrozzeria: «Io il Pd l’ho votato sempre, fino al referendum. quella è stata
una ferita grossa. Quando Fassino ha detto se fossi un operaio voterei sì ho capito che era finita. Non lo so, forse hanno scelto un’altra strada, forse non vogliono più rappresentare chi lavora. Marchionne ci ha ricattati tutti quanti, e lì ho capito che era finita. Abbiamo perso». Elisa: «Sono stata iscritta al Pd dalla fondazione. Mi aspettavo che il partito stesse con noi, invece se n’è andato. Allora non so più cosa possiamo fare, dobbiamo arrenderci?».
No, non dovete arrendervi, non dobbiamo. Nichi Vendola si alza in piedi, alza la voce, urla e sembra quasi vicino al pianto. «Io per vincere contro la destra ho dovuto prima vincere due volte contro il centrosinistra. Mi capite? Bisogna battersi su due fronti. Un nemico è il centrodestra, quello è facile da riconoscere. L’altro è più insidioso, mescola persone come Bersani, che possono essere nostre compagne di strada, a elementi che sono il peggio della vecchia Dc, del vecchio stalinismo, del liberismo nemico dei diritti. Noi dobbiamo tenere diritta la barra sul nostro progetto: i partiti politici tradizionali sono soffocati sotto il peso della cooptazione, la formazione dei gruppi dirigenti avvenuta al ribasso sulla base della fedeltà al leader. Due terzi dell’elettorato non si sentono più rappresentati da loro. Ma attenzione, io sono spaventato: questa crisi dei partiti può diventare ripudio della democrazia. Del sistema di rappresentanza rottamato sotto la parola d’ordine della casta in favore del plebiscitarismo. Anche Gesù Cristo fu crocifisso a democrazia diretta. Dobbiamo chiederci chi sono i costruttori di informazioni. Il populismo
è manipolazione, il web può inventare un popolo che non c’è attraverso la mistificazione.
Il mondo è complesso, non c’è bestemmia che possa liberarci dal male. Per salvare il mondo serve la cultura, non c’è invettiva che basti». Parla di Grillo, Vendola, a una platea molto tentata dal grillismo. Lo stesso Landini racconta del controllore del treno che proprio due ore fa lo ha fermato per chiedergli: mi dica di Grillo, state con lui? «Ma non si può liquidare l’antipolitica come una colpa di chi soffre l’abbandono da parte dei partiti che avrebbero dovuto rappresentarlo. Dobbiamo cambiare schema di gioco, offrire un progetto di modernità nuovo, creare un soggetto politico che torni nel posto che ha abbandonato: che torni a parlare degli interessi veri delle persone e del paese, con rispetto della complessità. Non è vero che si deve scegliere fra il lavoro e i diritti, alla Fiat, non è vero che si deve scegliere fra il lavoro e la salute all’Ilva. Ci possono essere lavoro e salute, lavoro e diritti. È più difficile, ed è per questo che dobbiamo investire nell’innovazione, nella ricerca, nella cultura. Ci serve intelligenza dei fenomeni complessi, non semplificazione. Gli slogan lasciamoli ai rottamatori ».
Ce n’è per Renzi, ora, applausi liberatori di entusiasmo. Tra i sindaci della Val di Susa è venuta Carla Mattioli, ex sindaco di Avigliana per due mandati, famiglia cattolica, padre sindaco democristiano, «quando io e mia madre abbiamo votato lo stesso partito, per Prodi, è stato un giorno felice». Poi sono arrivati i giorni bui. Il Pd di Avigliana si è alleato col Pdl, lei si è candidata in una lista civica, è stata espulsa dal partito — espulsa, con altri quattro — hanno vinto da espulsi le elezioni. Aveva un riferimento in Rosy Bindi, nel Pd. Ora che è fuori non sa: Renzi certamente no, è la destra, dice. Vediamo
Vendola.
Di Renzi Nichi dice che il tema del rinnovamento è potente, ma da solo non basta: il suo è un progetto sostanzialmente di destra e difatti è appoggiato da Confindustria, piace a Berlusconi, è sostenuto dai grandi investitori finanziari, occhieggia a Montezemolo e Passera. «La foto dei cosiddetti mostri, la foto di gruppo coi sostenitori del referendum contro l’articolo 18, non mi preoccupa perchè non mi interessano le storie di palazzo. Mi interessa il tema del lavoro. Dove sta Renzi sul tema del lavoro?». Giorgio Gori il king maker di Renzi ha cercato anche me, dice Vendola. «Sono bravi, sanno fare comunicazione, creano reti e convincono che stare con loro conviene. Ma per andare dove? Non è la nostra strada, quella». Con Di Pietro c’è un problema legato all’attacco a Napolitano: un problema serio, ma anche su questo «si deve lavorare. Il Presidente della Repubblica non è certamente una minaccia per questo paese, al contrario è una presenza di grande equilibrio e garanzia. Di Pietro dovrebbe piuttosto guardare al suo partito nel territorio, e renderlo presentabile e trasparente ». Bersani, per completare la foto di Vasto, «è un’ottima persona, leale. È il migliore del suo gruppo dirigente, ha lui stesso interesse al rinnovamento che gli tolga dal collo il fiato della vecchia nomenclatura di partito, ha bisogno di una sponda forte a sinistra».
E dunque che fare? Dargli la sponda? Stare con lui o, alle primarie, contro di lui? «Ho bisogno di arrivare a fine mese per decidere. Primo, perchè non voglio che ci siano ombre giudiziarie sul mio conto. Io so di aver agito nel rispetto della legge, ma voglio che sia certificato. Non voglio che nessun elettore abbia imbarazzo, aspetto l’esito della giustizia. Secondo: voglio che siano definite le regole delle primarie, e se possibile capire dove andrà la riforma della legge elettorale perchè se si torna al proporzionale, in sostanza, cambia tutto e le primarie per la leadership implodono. Io piacevo ai salotti della borghesia del centrosinistra quando ero quello con l’orecchino, l’Idrolitina delle acque morte del centrosinistra. Ma di piacere ai salotti non mi interessa. La fatwa contro di me è cominciata il giorno che sono andato ai cancelli di Pomigliano. La battaglia politica riparte da li. Dal lavoro, dalla rappresentanza delle ragioni degli ultimi, dal diritto e dal merito. Coi referendum in cui il Pd non credeva, e poi 27 milioni di persone hanno fatto vincere la sinistra suo malgrado. I sindaci di Milano, di Cagliari, di Genova, le vittorie di cui il centrosinistra si è adornato le abbiamo portate noi. La Cgil diceva: quella per i referendum Fiat è una firma tecnica. Poi abbiamo visto dove ha portato, e abbiamo avuto i governi tecnici. È venuta l’ora di tornare a vincere
e di fare politica. Se lo strumento siano queste primarie lo capiremo entro la fine del mese. Però deve essere chiaro: le primarie sono uno strumento, non il fine. Per lo meno: non il mio. Lo spazio a sinistra non ce l’ha mai regalato nessuno, ce lo dobbiamo conquistare. Noi definiamo i nostri obiettivi, e vediamo chi ci sta. Certo non andiamo a mettere il becco nelle diatribe interne al Pd: sono problemi loro. Quando si saranno chiariti e saranno pronti ci facciano un segno e allora cominceremo a discutere. Ci dicano se le primarie sono il loro congresso. In questo caso le osserveremo con rispetto. Un minuto dopo si comincerà a parlare di come e con quali forze governare il paese».

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