Poche stanze diventano un inferno nell’Atene sottomessa dai nazisti

Durante la Seconda guerra mondiale, Kalter, un capitano dell’esercito tedesco che occupa Atene, abita in qualità  di «ospite imposto» nel modesto appartamento della famiglia Helianos, composta da un marito, Nikolas, una moglie, un ragazzetto inquieto, Alex, e una bambina di dieci anni, ritardata, di nome Leda. C’era un altro figlio, Kimon, ventenne: ma è morto nella battaglia dell’Olimpo.

Durante la Seconda guerra mondiale, Kalter, un capitano dell’esercito tedesco che occupa Atene, abita in qualità  di «ospite imposto» nel modesto appartamento della famiglia Helianos, composta da un marito, Nikolas, una moglie, un ragazzetto inquieto, Alex, e una bambina di dieci anni, ritardata, di nome Leda. C’era un altro figlio, Kimon, ventenne: ma è morto nella battaglia dell’Olimpo. Gli Helianos, come tutti i greci, vivono nelle ristrettezze, se non nella miseria: la piccola casa editrice nella quale Nikolas era socio e redattore ha dovuto chiudere i battenti, infatti, e altre risorse non ne hanno. Di questo, però, al gelido capitano non importa minimamente: lui pretende pasti caldi e ben cucinati, e non si cura se gli Helianos fanno la fame; ha cambiato la disposizione dei letti nelle stanze, riservando per sé la camera matrimoniale, il salotto e il bagno, e relegando gli altri quattro in una stanzetta e in cucina; vuole silenzio e s’infuria per il minimo rumore. È un carnefice. Gli Helianos sono le vittime.
Il libro Appartamento ad Atene di Glenway Wescott (Adelphi, pp. 246, € 11) è uno dei romanzi più spietati e crudeli che ho letto negli ultimi venti anni: un romanzo che non concede nessuno spiraglio di speranza, e può atterrire per la sua cupa visione del destino, tanto simile alla visione del destino che si contempla nelle tragedie greche, nelle quali sembra che la catena del male e dei lutti non debba mai aver fine.
È anche un romanzo bellissimo — come ha scritto Pietro Citati. Wescott è uno scrittore che conosce profondamente l’animo umano: sa in quali abissi di degradazione può precipitare quando è cieco del suo futuro, tormentato dalla paura, vessato dalla minaccia quotidiana; conosce alla perfezione i loschi meccanismi che molto spesso rendono le vittime dipendenti dai carnefici, soggiogate e annichilite al punto di sentirsi rassicurate da quella mostruosa oscurità che le domina e le rende simili a «un germoglio in una cantina buia che cresce in cerca della luce», oppure a «un verme primordiale esposto alla luce, che si contorce alla ricerca di una zolla sicura, di un buio sicuro»; non ignora, e comprende (ultima e più drammatica di tutte le degradazioni), il sollievo (è pazzesco, tuttavia è un sollievo) che le vittime possono provare all’idea del perdono.
Sì, Wescott conosce l’animo umano e, in una storia che è circostanziata nei luoghi e nel tempo, ma che è fuori del tempo, antichissima e moderna, e potrebbe svolgersi ovunque, al lettore non risparmia nulla. I repentini cambi d’umore del capitano, che nel frattempo è diventato maggiore, e i conseguenti cambi d’atteggiamento dei due Helianos sia nei suoi confronti che fra di loro; le perfidie nei confronti dei due ragazzini innocenti; la confidenza e la pena estorte al padrone di casa illuso di trovare un terreno d’incontro nel dolore (Kalter ha perso, nella guerra, la moglie e i figli); le urla della belva nazista che accusa Helianos di oltraggio a Hitler e al nazismo; il suo arresto; il suicidio (di Kalter) e la trappola architettata (da Kalter), prima di togliersi la vita, per incastrare il resto della famiglia (i cugini Helianos che sono nella Resistenza); la fucilazione di Helianos: tutto è dolore.
C’è una pagina straordinaria, verso la fine del romanzo, in cui questo dolore, dell’anima e del corpo, è descritto nella sua essenza. È il dolore della signora Helianos. È come un dolore metafisico: «Il dolore promesso da tutti gli altri dolori». Ma ha un luogo concreto in cui affonda. Affonda nella carne della signora Helianos: «Come un grande amo perfettamente conficcato nel suo cuore, e dietro, e tutt’intorno, il dolore come una solida lenza ben fissa, che tirava e tirava con assoluta costanza… E così la sua forza d’animo andava giù, giù, come un pesce che d’istinto cerchi alghe profonde e oscure per avvilupparvisi, grandi scogli per puntellarsi, per contrastare lo strappo nell’unico modo possibile, col peso e la profondità e il silenzio».

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