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WILLIAM GIBSON.  Con «Zero History» lo scrittore statunitense termina la trilogia dedicata all’economia della conoscenza. Una discesa agli inferi senza il lieto fine nei labirintici meandri della contemporaneità  Il lettore che cercasse in Zero History (traduzione di Daniele Brolli, Fanucci 2012, pp. 548, euro 12,90), come promesso dalla copertina, «un thriller di William Gibson», resterebbe forse deluso.

WILLIAM GIBSON.  Con «Zero History» lo scrittore statunitense termina la trilogia dedicata all’economia della conoscenza. Una discesa agli inferi senza il lieto fine nei labirintici meandri della contemporaneità  Il lettore che cercasse in Zero History (traduzione di Daniele Brolli, Fanucci 2012, pp. 548, euro 12,90), come promesso dalla copertina, «un thriller di William Gibson», resterebbe forse deluso. D’altra parte, chi cerca il thriller nei romanzi di questo autore non lo trova mai, sin dai tempi di Neuromante: come Ballard (ma come tanti altri scrittori di grande merito, e dico Gadda per non dirne altri), Gibson non ama gestire i finali, gli scioglimenti dell’intreccio (o forse non è capace, ma io sospetto di no). Il fatto è che l’interesse di Gibson, sin dai tempi di Neuromante, non è mai stato il plot, ma i personaggi, e il loro obliquo rapporto con la società di cui fanno parte. Come avrebbe potuto, altrimenti, guidare trent’anni fa la breve ma intensa stagione cyberpunk, tutta virata proprio verso l’interazione sociale dei personaggi? Tramontato il cyberpunk, e superati anche i romanzi francamente opachi degli anni 1990, nel nuovo secolo Gibson si è presentato con una trilogia di opere che non fanno rimpiangere quella originaria dello Sprawl (Neuromante, Count Zero e Mona Lisa Overdrive). È la trilogia che potremmo definire di Bigend, dal personaggio che ne segna la continuità: Pattern Recognition (2003), Spook Country (2007), e questo Zero History che per il momento la conclude (per fortuna il nuovo editore italiano ha optato per la conservazione del titolo originale, risparmiandoci, come nei casi precedenti, obbrobri del tipo L’accademia dei sogni e Guerreros).
Il segreto della creatività
Gibson ha ormai abbandonato l’esplorazione del futuro più o meno prossimo per un’indagine ravvicinata sul presente: conserva però il nucleo del suo atteggiamento precedente (che è poi l’eredità della fantascienza), così che il tratto più evidente di questi romanzi è ancora il modo in cui le nuove tecnologie giocano nel rimodellamento della vita quotidiana, ma anche nelle dinamiche economiche e sociali. Detto in altri termini: la trilogia di Bigend rappresenta una descrizione vivace, insieme drammatica e ironica, del «capitalismo cognitivo» – o linguistico, o dell’immaginario, chiamatelo come volete. Visto soprattutto attraverso le nuove figure sociali, le nuove professioni, i nuovi lavori che questa società modifica o crea a ritmo sostenuto. E questa è la vera novità rispetto alle opere cyberpunk degli anni 1980, in cui paradossalmente i personaggi del potere, i capitalisti, per capirci, erano tutto sommato ancora di tipo molto tradizionale. Hubertus Bigend, invece, è proprio la figura ibrida e inedita di imprenditore che ci aspettiamo ai giorni nostri, e la sua azienda, la «Blue Ant», è a sua volta un ibrido fra un’agenzia di pubblicità, un istituto di ricerche di mercato e un ufficio studi bancario. Lo schema dei tre romanzi è sempre lo stesso: Bigend si imbatte in uno dei tanti prodotti «non ufficiali» che proliferano nella società della rete, uno degli episodi di creatività laterale emergenti. Si mette d’impegno a cercarne l’origine, diciamo pure (con un concetto forse inadeguato) l’«autore», per capire il processo dal quale esso è nato e trasferirlo nel mondo dell’economia istituzionale – insomma nel processo di valorizzazione.
Dopo il video (Pattern Recognition) e la cartografia militare (Spook Country), in Zero History è la moda al centro del plot, sotto la specie della collezione Gabriel Hounds. Dice Bigend che la genialità della misteriosa creatrice di questo abbigliamento («oggetti veri, non capi di moda») «consiste nel saper reinterpretare la semiotica dell’abbigliamento americano per la distribuzione di massa… Sarebbe folle non cogliere le opportunità». Bigend pensa di proporre queste giacche di un denim «ruvido e irregolare», «che tutti avrebbero voluto possedere all’istante», all’esercito degli Stati Uniti. Ma per trovare la stilista, ha bisogno anche questa volta del lavoro di qualcuno: qualcuno di irregolare, escluso non tanto da «classici» processi di emarginazione, quanto da una scelta o da eventi dolorosi (come sono anche i più interessanti personaggi di Pynchon: ma in Gibson, in qualche modo, la dolorosa ipersensibilità di queste persone è sempre legata al clima post 11 settembre). Qui si tratta di Hollis Henry, la giornalista ex musicista rock che era già al centro di Spook Country. Attorno a lei, all’ex tossico Milgrim e alla schiera degli altri personaggi (fra cui spicca l’ex fidanzato di Hollis, Garreth, nelle vesti di deus ex machina) si dipana il torbido intreccio tripolare fra la squadra di Bigend, quella dei suoi concorrenti (i veri vilain dell’intreccio), e i servizi segreti Usa, sino alla conclusione che vedrà ancora una volta frustrati i disegni della Blue Ant.
L’enigma del sapere
Ma se, sul piano della trama, è l’intervento di un attore istituzionale e tradizionale come lo stato a lasciare Bigend a bocca asciutta, su quello della struttura più profonda è Hollis che testardamente, sordamente, si oppone per tutto il libro ai disegni dell’imprenditore: come la Molly di Neuromante, e tutti i personaggi femminili di questo tipo che, in Gibson, sono sempre il fulcro della resistenza alla normalizzazione sociale. Come l’indimenticabile Cayce Pollard di Pattern Recognition, che riappare in una breve scena di questo romanzo perché, come il lettore vedrà, ha qualcosa a che fare con questa storia di brand segreti e di «microeconomie parallele, dove conta più il sapere che il denaro». Una logica ben diversa da quella del pervasivo capitalismo postfordista, ma non del tutto incompatibile con i suoi presupposti. Declinati però in modo obliquamente alternativo.

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