Quando i sensi sono estremisti

VENEZIA. Dal viaggio «verso il meraviglioso» di Malick si passa, nella sezione Orizzonti, all’«Estasi del millennio» di Koji Wakamatsu, un’orgia di piaceri tra musica, sangue e fiori
L’eretico genio giapponese (da poco riammesso a corte, dopo l’oblio), si getta a capofitto in un labirinto barocco, fiancheggiando i fuoricasta. E la cilena Sarmiento ritrova l’epopea portoghese in «Le linee di Wellington»

VENEZIA. Dal viaggio «verso il meraviglioso» di Malick si passa, nella sezione Orizzonti, all’«Estasi del millennio» di Koji Wakamatsu, un’orgia di piaceri tra musica, sangue e fiori
L’eretico genio giapponese (da poco riammesso a corte, dopo l’oblio), si getta a capofitto in un labirinto barocco, fiancheggiando i fuoricasta. E la cilena Sarmiento ritrova l’epopea portoghese in «Le linee di Wellington» VENEZIA. Un’orgia di dolce musica e di piaceri carnali. Sangue, usignoli e fiori di malva…in un apologo, quasi magico, giapponese, L’estasi del Millennio. In punto di morte la levatrice Zia Oryu, genio sorridente che presiede alle nascite, chiacchiera con la foto in bianco e nero del defunto marito, un saggio sacerdote buddista specializzato in funerali, sulla strana vita e sulla cattiva sorte di due fratelli e un cugino, tre ragazzi bellissimi, giovanissimi e dannati. E il trittico racconterà l’odissea tragica di un ladro eroinomane e dissoluto; di un vorace amante impenitente, miserabile dongiovanni; di un operaio edile, educato e gentile fino al sublime (e unica deviazione erotica della fedele Zia Oryu). Tutti destinati a una breve vita di dolore e sofferenza e a una morte cruenta in quanto membri del clan Nakamoto, maledetti nei secoli per il loro sangue, che fu nobile ma inguaribilmente, indomitamente «empio».
Abitanti coatti dei «Vicoli», il ghetto di Roji, una sorta di favela che si affaccia sul mare davanti a una baia che, parola del regista «mi ricorda tanto l’utero», i tre sono dei «burakumin» e, come i paria in India, i discriminati da sempre (anche se dal 1871 non legalmente, subdolamente). «Volevo fare il pescatore, ma me lo vietano», si lamenta il gigolò mantenuto. «Mi sento un fuoco che vorrebbe eternamente produrre scintille», dice il ladro compulsivo, cantore blasfemo di filastrocche. «Voglio vivere pericolosamente collezionando solo emozioni forti, sesso, furti, tatuaggi immensi, omicidi, seduzioni, il sapore della libertà totale». A costo di trovare poi nell’eroina, nelle metanfetamine e nel saké bevuto a bottiglioni dei pallidi succedanei. L’estremismo sensorio dei tre, estetico o anche etico, è sempre represso dal sistema vigente, autoritario, classista e razzista non meno del sistema democratico Fiat, da Valletta a Gianni Agnelli…
La nuova onda giapponese (Oshima, Hani, Imamura, Suzuki…) nacque negli anni 50 proprio polemizzando con la falsa democrazia e deviando la cinepresa nei bassifondi proibiti, fiancheggiando gli arrabbiati, inseguendo le loro avventure «fino all’ultimo respiro» e mettendosi dalla parte degli esseri socialmente schiacciati, ma indocili. Basta con l’idealismo, tipo «la bellezza sono le belle idee». Basta con i film «fotocopia» della linea del partito. La bellezza è la soggettività desiderante di uomini e donne che insorgono spontaneamente, istintivamente, contro l’ordine simbolico del Giappone. C’era più coscienza nell’incoscienza quando si voleva costruire un nuovo mondo o almeno nuove immagini…
Dal viaggio «verso il meraviglioso» di Malick, dunque, all’Estasi del millennio di Koji Wakamatsu, sezione Orizzonti. Arrivato circa al duecentesimo film questo genio eretico giapponese (da poco riammesso a corte, dopo un lungo oblio), una sorta di Dwan nipponico, si getta a capofitto in un altro affascinante labirinto barocco, tutto un vibrante gioco di interni e di esterni, di movimenti di macchina diagonali, di ellissi, abissi, ascese e discese… argomento centrale «l’utero», chiarificazione teorica delle ossessioni che resero oscuri e pericolosi i primi capolavori del cineasta sessantottino (e per questo messo all’indice) di L’estasi degli angeli, Embrione e soprattutto di quella sanguinosa carrellata in avanti verso il ritorno allo stadio prenatale che fu l’insostenibile Angeli violati. Il film è tratto dal romanzo di uno scrittore che apparve negli anni 70, Kenji Nagakami, ed è ambientato a sud di Osaka, nella cittadina costiera di Shingu, prefettura di Wakayama, nel centro sud est del Giappone.
Nakagami è il cantore dell’ «orgoglio buraku», dei discendenti di oggi dei fuoricasta d’epoca feudale, che se non fossero arrivati gli occupanti americani sarebbero stati esclusi dalle scuole di ogni ordine e grado, relegati a lavori «impuri» (secondo i canoni shintoisti e buddisti) come macellai, conciatori di pelli, calzolai o becchini, perché la morte e il sangue sono a loro affini.
Wakamatsu ne canta le gesta, come fossero divinità rimosse, un po’ come fece Walt Disney nella celebre Silly Simphony quando ci spiegò che chi è «simile alle cicale che si spengono troppo presto dopo aver cantato a più non posso» è un’anima bella, perché accende la funzione estetica, che poi è quella che carica tutte le altre a mille, e le formiche del mondo intero dovrebbero ringraziarlo. La cicala di Walt sopravvive, e Wakamatsu rende imbalsamate per sempre le lombre delle gesta burako, e delle loro donne, che si scoprono spregiudicate e si avvinghiano alle loro carni, come nelle stampe shunga di Utamaro o nei racconti libertini di Ihara Saikaku …Ecco perché «i vicoli», come a Napoli, sono il luogo del sovvertimento di ogni regola, dell’impuro raccontato come è, senza ipocrisia né tifo. «Figli della vergogna» i burakumin sono una «minoranza invisibile». O almeno lo erano fino a questo doppio misto romanzo-film.
A scuola ci raccontavano come la caduta di Napoleone, la fine della spinta propulsiva delle sue armate, iniziò nel 1810 proprio dove meno se l’aspettava, in Portogallo, quando il vanitoso, insopportabile e anche inetto duca di Wellington riuscì a fermare le truppe «giacobine» degli anticristi tricolori, costruendo «una linea» di difesa fortificata nei pressi di Lisbona e dando un po’ di ordine all’ esercito di un ex impero decaduto che sua maestà britannica aveva tutto l’interesse economico a proteggere (per il Porto, l’industria tessile e non solo). La regista cilena-nomade Valeria Sarmiento in Le linee di Wellington, ha completato magnificamente il film, iniziato dal suo compagno Raul Ruiz, dal copione di Carlos Saboga, raccontandoci in una sorta di Noi credevamo altrettanto ambizioso e sontuoso per valori produttivi e attori perfetti (Paulo Branco perde il pelo ma non il vizio), quel famoso esodo tatticamente vincente (da Coimbra in giù tutta la popolazione abbandona le case alle truppe del generale Massena), quella sorta di «guerra di guerriglia» ottocentesca combattuta da ex rivoluzionari pentiti e disertori, da truppe fedeli agli assolutismi e da fanatici, eretici e crudeli sacerdoti «sanfedisti». Un conflitto più che altro subito dai civili in fuga, profughi di ogni classe e ceto e soprattutto dalle donne, sempre vittime privilegiate delle invasioni.
Attraverso una serie di vicende (e anche di allucinazioni) che si intrecciano nelle quasi tre ore di film… tenenti feriti che fuggono, ladri che ne approfittano, monelli che resuscitano, diciassettenni inglesi che si liberano delle istitutrici troppo puritane, vedove inconsolabili, suore caritatevoli, meretrici troppo generose, nobili portoghesi la cui incurabile decadenza e «saudade» viene radiografata con precisione da orologio dal trio di ricchi «svizzeri» (Michel Piccoli, Isabelle Huppert e Catherine Deneuve) dall’umorismo voltairriano, intellettuali agiati che scappano portandosi dietro l’intera biblioteca e il tavolo da studio…, si compone un puzzle che restituisce la sostanza conoscitiva degli avvenimenti storici, scolpisce ritratti a tutto tondo dei protagonisti. Per esempio John Malkovich, come duca di Wellington, è maleficamente perfetto. Quel che interessa Sarmiento è far capire che gli eventi del 1810 e la cacciata dei francesi dal Portogallo saranno componenti essenziali sia per la critica dell’assolutismo feudale sia per quella del giacobinismo, ormai asservito ai nuovi valori borghesi, altro che libertà e eguaglianza.
Insomma nasce il Portogallo che sarà presto repubblicano. E anche l’Europa delle nazioni insorte prepara la grande rivoluzione anti feudale del 1848, quella che ci raccontò Karl Marx e che, speriamo, sarà presto film.

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