Era il 5 settembre del 1972 quando i terroristi palestinesi rapirono la squadra israeliana ai Giochi. Viaggio nei luoghi e nei ricordi della strage
Era il 5 settembre del 1972 quando i terroristi palestinesi rapirono la squadra israeliana ai Giochi. Viaggio nei luoghi e nei ricordi della strage
MONACO DI BAVIERA. La palazzina a quattro piani è ancora là, in mezzo alle altre nel villaggio olimpico di Monaco 1972 dove cominciò la tragedia. Da un balcone, sotto la pioggia, salutano e sorridono due giovani asiatiche: piantano fiori nuovi sulla loro piccola terrazza, felici di studiare e divertirsi in Europa.
ConnollyStrasse civico 31, oggi è ostello internazionale per gli scienziati che da tutto il mondo vengono qui ospiti della Max-Planck-
Gesellschaft, il Mit o Institut Pasteur tedesco, top dell’eccellenza tecnologica made in Germany. Devi parlare con loro due, o con gli altri inquilini, per rimuovere l’oblio. «Ogni volta che rientriamo qui, quella lapide in ebraico ci stringe il cuore. Allora non eravamo nate; abbiamo scoperto qui quelle foto in bianco e nero: il nostro balcone di oggi, con un terrorista incappucciato che si sporge», dice una delle due, e il sorriso asiatico cede il passo alla tristezza. «L’usanza ebraica di porre sassolini su tombe o lapidi votive l’ho imparata qui, non è nostra ma spesso prendo un sassolino dalle aiuole», aggiunge.
ConnollyStrasse 31, era qui l’alloggio della squadra olimpica israeliana che quarant’anni fa, in quel tragico 5 settembre 1972, fu sequestrata e poi assassinata da un commando terrorista di “Settembre nero”. Quarant’anni, quasi due generazioni, ma errori e colpe imperdonabili riemergono dalla memoria, e oggi come allora feriscono e straziano la Germania del dopoguerra.
«Io arrivai subito sul posto alle 5,30 del mattino, appena avvertito, ero in contatto costante col cancelliere Willy Brandt», racconta passeggiando Hans-Jochen Vogel, veterano ed eroe della Spd, allora ex borgomastro di Monaco rossa e corresponsabile del comitato organizzatore delle Olimpiadi. «È ancora oggi uno dei ricordi più tragici della mia vita». Le Olimpiadi di Monaco, con Brandt cancelliere della pace, dovevano essere l’antitesi delle Olimpiadi razziste e guerrafondaie organizzate da Hitler e Goebbels a Berlino nel 1936. «Volevamo un’Olimpiade diversa, simbolo della nuova democrazia tedesca», dice Vogel e cela appena rimpianti. «E quello fu il concetto allora: un villaggio olimpico pacifico, multietnico, aperto, senza polizia onnipresente e armata ».
Connollystrasse civico 31. Le altre palazzine ex olimpiche attorno oggi sono tutte abitate, da famiglie giovani, da laboriosi migranti turchi, da studenti. Quella, no. Solo la Max-Planck-Gesellschaft le ha dato una funzione provvisoria. A lungo, dopo quel massacro, nessuno ha voluto abitare nella casa della morte. Poco importava che il villaggio olimpico di Monaco fosse e sia un quartiere modello, tutto pedonale con spazio solo sotterraneo per le auto, ogni servizio, dieci minuti di métro dal centro. «Quella tragedia segnò la nuova Germania, a lungo fu ostinatamente rimossa dalla gente di qui sebbene non fosse un crimine tedesco, la gente voleva ricordare solo la festa olimpica e non la strage, per questo abitare lì era tabù», mi spiega il collega Martin Bernstein della Sueddeutsche.
«E solo adesso, grazie a Vogel e al console israeliano, si discute di trasformarla in memoriale per quelle vittime ricordate
dalla lapide».
La rimozione contagia veloce, nel concreto del Mitteleuropa già tanto ferito da tragedie tedesche. Il villaggio olimpico della nuova Germania decisa a vincere la pace e non più guerre non aveva barriere. Solo una grata di due metri, superabile per ogni monello. E agli aeroporti, allora, non c’erano scanner e metal detector. «Io vidi quei sette o otto giovani scavalcare prima dell’alba la barriera, e in quel clima di gioia rilassata del mondo sportivo pensai fossero solo dei ragazzacci, non dissi nulla; non finirò mai di rimproverarmelo, non mi libererò mai da quel senso di colpa del ricordo », mormora Karen James, allora olimpionica di nuoto canadese. Issa, Tony e gli altri passarono all’azione così, inosservati.
Eppure, raccontano Bruno Merk, allora ministro dell’Interno bavarese, e Manfred Schreiber, allora capo della polizia a Monaco, gli allarmi c’erano stati. Pesa come un macigno, nella storia tedesca del dopoguerra, quel messaggio cifrato numero 319, che l’ambasciata federale, per conto del Bnd (i Servizi) inviò invano a inizio agosto da Beirut a Bonn e agli alleati. «Allarme, i palestinesi preparano azioni alle nostre Olimpiadi». David Berger e Zeev Friedman, Josef Gutfreund e Elieser Halfin, Josef Romano e Amizur Shapira, Kehat Shorr e Mark Slavin, Andre Spitzer, Jakov Sbringer e Moshe Weinberger allora erano ancora vivi. Oggi qui al civico 31 di Connollystrasse restano solo i loro nomi sulla lapide in caratteri ebraici e latini, sormontata dai sassolini che le cinesi e gli altri ospiti del Max Planck — stranieri venuti in pace in Germania, come quegli israeliani — continuano a porre.
«Il mondo allora non era preparato all’emergenza del terrorismo », ricorda il veterano Vogel passeggiando sotto la pioggia, «e così con gli altri responsabili arrivai sotto shock alla Connollystrasse occupata dai terroristi con gli ostaggi. Seguì una serie di errori, mai come allora vidi Willy Brandt così scosso e addolorato». I terroristi chiesero la liberazione di 200 prigionieri palestinesi in Israele, Gerusalemme disse subito no. I negoziati furono frenetici. I tedeschi offrirono trasporto sicuro fino al vicino aeroporto militare di Fuerstenfeldbrueck e un volo verso l’Egitto. Voleva essere un tranello, ma non funzionò, finì in carneficina. «Con la nostra polizia preparammo un piano d’attacco, vede, potevamo assaltare con commandos dai parcheggi sotterranei», spiega Vogel, «ma poi ci accorgemmo solo all’ultimo che nessuno aveva pensato a spegnere le telecamere nel villaggio olimpico, e dalla tv a circuito chiuso i terroristi avrebbero potuto vedere tutto. Dovetti dare l’ordine di rinunciare al blitz».
Uno sbaglio dopo l’altro, nessuno ebbe il tempo di asciugare il sangue dei primi due israeliani (un custode e un atleta del sollevamento pesi) freddati dai terroristi nei primi istanti dell’attacco. Con elicotteri militari, terroristi e ostaggi furono portati a Fuerstenfeldbrueck. Oggi se ci vai, anche là solo una lapide ti ricorda l’orrore. «L’ordine era tentare un blitz, ma allora noi tedeschi eravamo dilettanti», ricorda il colonnello Ulrich Wegener. Dissidente in Germania Est, condannato ad anni di gulag per aver chiesto libertà sindacale, liberato ed espulso in cambio di crediti di Bonn, era appena all’inizio della carriera a ovest. «Io e Genscher, allora ministro dell’Interno, seguivamo i preparativi per microfono, con pessimi collegamenti, nascosti sotto una scrivania della torre di controllo di Fuerstenfeldbrueck. Avevamo sì e no cinque tiratori scelti della polizia con vecchi fucili imprecisi. Ai terroristi avevamo offerto un 727 Lufthansa per volare via.
Era uno specchio per allodole, ma i finti piloti, steward e hostess — in realtà poliziotti a bordo di quel Boeing per tentare di sopraffare i terroristi — alla fine si rifiutarono di restarci: troppo pericolo secondo il regolamento. «I terroristi ispezionando il Boeing si accorsero che era vuoto, fiutarono il tranello, fu la fine. Dovetti dare l’ordine di sparare», ricorda Bruno Merk. «Lo ricordo ancora con dolore e rabbia». Finì in una carneficina. Un’ora e mezzo di conflitto a fuoco tra tedeschi impreparati e terroristi, panzer leggeri della polizia inutilmente all’attacco sparando alla cieca, granate dei terroristi, esplosioni.
Vogel era in contatto costante con Genscher, Merk e Wegener, a lui toccava riferire a Willy Brandt in tempo reale. «La cosa più tremenda », ricorda, «fu quando un tale col berretto militare, istruito chi sa da chi, corse dai giornalisti alle porte della base di Fuerstenfeldbrueck e disse “tutto bene, ostaggi liberati”, e la breaking news fece il giro del mondo sulle agenzie. La passai a Brandt, lui mi disse di attendere a confermarla. Solo dopo, appresi da Genscher, Merk e Wegener, e dissi a Willy, che non era così, che tutti gli ostaggi erano morti. “Grazie dell’aiuto, compagno Vogel”, mi mormorò lui, e solo allora telefonò al premier israeliano Golda Meir. Per fortuna, Golda e il suo governo evitarono ogni riferimento all’Olocausto nelle loro reazioni».
Cominciò la nuova resa dei conti della Germania col mondo e con se stessa, dice il colonnello Wegener. «In quelle ore rifiutammo, in nome della sovranità, l’offerta israeliana di un intervento di loro forze speciali. Non fu saggio. A me poi toccò creare il GSG 9, il reparto scelto tedesco». A Mogadiscio, col blitz sul 737 Lufthansa dirottato, il nuovo team di Wegener esordì, con l’aiuto decisivo dello Sas britannico. Riscossa tardiva: Monaco ‘72, disse poi Brandt, «restò come monumento tragico di incapacità, sullo sfondo terribile del nostro passato».
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