Monica Galfré: «Frequenti i rigurgiti di giustizialismo e una concezione tribale della giustizia»

Intervista alla docente di storia contemporanea dell’Università di Firenze dopo la liberazione del BR Boccaccini: «Forse continuare a piazzare microfoni davanti ai parenti delle vittime è un modo di fare sbagliato»

Intervista alla docente di storia contemporanea dell’Università di Firenze dopo la liberazione del BR Boccaccini: «Forse continuare a piazzare microfoni davanti ai parenti delle vittime è un modo di fare sbagliato»

 

«Sappiamo bene che in questo paese sono frequenti i rigurgiti di giustizialismo…». Monica Galfré, docente di storia contemporanea all’Università di Firenze, ha dedicato molti libri agli anni del terrorismo italiano, alla continua ricerca di una prospettiva che vada oltre lo scontro politico postumo e che possa dunque servire a storicizzare gli anni più duri della Repubblica. La scarcerazione del neobrigatista Simone Boccaccini, avvenuta la settimana scorsa per fine pena dopo ventuno anni, però, secondo lei non riguarda tanto la difficoltà a chiudere certi conti con il passato.
«Boccaccini ha fatto parte di una stagione molto diversa rispetto ai cosiddetti anni di piombo, definizione che non amo ma che uso per chiarezza – dice Galfré -. Mi pare che il problema vero sia nella difficoltà collettiva a prendere atto dell’articolo 27 della Costituzione, dove si dice che la pena deve tendere alla rieducazione. Purtroppo questo riguarda anche alcuni settori della sinistra. Non ci si scandalizza dell’emergenza carcere e dei suicidi continui, ma di una scarcerazione anticipata che in fondo è il segno del recupero di un carcerato: eppure solo in questo caso si può parlare di rafforzamento dello Stato».
Tra gli anni ’70 e ’80, in effetti, quando il terrorismo era un tema all’ordine del giorno, il senso della pena forse era più chiaro rispetto al giorno d’oggi…
Pensiamo alla legge Gozzini, di cui peraltro Boccaccini ha usufruito: fu approvata nel 1986, l’anno dopo fu la volta della legge sulla dissociazione dalla lotta armata. L’idea di Mario Gozzini, senatore della Sinistra indipendente, era di occuparsi prima del carcere in generale e poi dei detenuti politici. Ma è chiaro che il carcere era divenuta un’emergenza drammatica proprio con la lotta al terrorismo, tanto che Gozzini sfruttò anche il patrimonio di riflessioni dei detenuti politici, che nei primi anni ’80 avevano dato vita al movimento della dissociazione, volto una revisione critica della scelta armata. Le aree omogenee concesse ai dissociati furono la dimostrazione che il carcere si poteva gestire in modo diverso, anche a fini di ordine interno.
Ecco, ogni volta che emerge una notizia in qualche modo collegata al terrorismo, il dibattito pubblico si scatena. La ferita è ancora aperta?
Probabilmente c’è un eccesso di memoria. E parlo sia di quella delle vittime sia di quella dei colpevoli. A ragionare così, soltanto sulla base del proprio vissuto, si rischiano sempre il cortocircuito. Forse una maggiore storicizzazione aiuterebbe, in effetti.
Un esempio di questo cortocircuito è il caso di Cesare Battisti, che venne riportato in Italia a quarant’anni dal suo ultimo reato tra squilli di tromba e sceneggiate francamente evitabili ai tempi del governo gialloverde. Allo stesso tempo, però, quando parlò con il magistrato, ammise le sue colpe, sconfessando tanti che ne avevano sostenuto l’innocenza.
Del caso Battisti fu fatto un uso politico molto evidente, funzionale a dare un’idea di giustizia dura e implacabile contro il presunto lassismo precedente. Che però non è mai esistito, anzi. Semmai negli anni ’70 la classe politica parlava di carcere con una maggiore conoscenza della materia, era ancora vivo il ricordo delle prigionie degli antifascisti. In pochi avrebbero detto che Boccaccini ha scontato “solo 21 anni” perché comunque parliamo di un tempo lunghissimo.
Un altro problema di memoria.
Di memoria e di concezione tribale della giustizia. Forse continuare a piazzare microfoni davanti ai parenti delle vittime è un modo di fare sbagliato. Nel suo primo libro («Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre», Einaudi, ndr) Benedetta Tobagi parla con grande lucidità del disperato bisogno di riconoscimento della vittima, che è però destinato a non trovare mai soddisfazione. L’enormità del male commesso è tale da rendere inadeguati qualsiasi spiegazione, qualsiasi gesto. Allo stesso modo penso che nessuna pena, nessuna punizione sia in grado di pareggiare l’assassinio di un padre o di un fratello. Questo vuol dire che la questione è molto diversa da come viene posta di solito, cioè in maniera strumentale.
A proposito di uso strumentale della memoria e della storia, nota qualche differenza nel dibattito pubblico sulla lotta armata di sinistra rispetto a quella di destra?
La stagione del terrorismo di sinistra si può dire si sia conclusa con l’accertamento della verità giudiziaria. Ormai sappiamo praticamente tutto e restano poche zone d’ombra. Lo stesso non possiamo dire dello stragismo. Sarà che a destra ci sono stati pochissimi pentiti e pochissimi dissociati. Del resto il Msi aveva con ampie aree del neofascismo eversivo un rapporto che il Pci non ha mai avuto, a cominciare dai gruppi extraparlamentari, fino a divenire l’alfiere della lotta al terrorismo. A destra ci sono stati dei tratti di continuità che poi sono stati usati in modo diverso a seconda dei momenti e delle convenienze. Del resto molti esponenti del Msi erano implicati ed è naturale che gli eredi assumano un atteggiamento difensivo al riguardo.

* Fonte/autore: Mario Di Vito, il manifesto

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