Anni Settanta. La violenza politica e la storia su commissione

Ieri la conferenza stampa in Parlamento – insieme all’Anpi – delle Associazioni dei familiari delle vittime delle stragi di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia e di Bologna

Ieri la conferenza stampa in Parlamento – insieme all’Anpi – delle Associazioni dei familiari delle vittime delle stragi di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia e di Bologna

 

La proposta di Fratelli d’Italia di istituire una «commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza politica negli anni 1970-1989» rappresenta l’ennesimo tentativo di ricerca di catarsi repubblicana dei post-fascisti al governo. Un irricevibile e maldestro tentativo di riscrittura della storia del Paese finalizzato a riabilitare una destra impresentabile che porta con sé tutto il peso dei fatti di cui fu protagonista in negativo in quei decenni.

Se da un lato, con la conferenza stampa tenuta ieri in Parlamento congiuntamente all’Anpi, le Associazioni dei familiari delle vittime delle stragi si sono già mobilitate per contestare tale commissione (nel fondato timore che intralci lavoro e risultati raggiunti dalle ultime inchieste per gli eccidi di Piazza della Loggia e della stazione di Bologna) dall’altro non si può non sottolineare come decenni di rimozione, vuota retorica celebrativa e narrazioni qualunquistiche bipartisan abbiano dissodato il terreno in favore della malapianta revisionista.

L’USO CONTINUATO di una grammatica storica sbilenca ha consentito di eliminare significato e ragione dei fatti. Su questo la formula della «violenza politica» riveste una funzione distorsiva e fuorviante e per questo da scomporre. La violenza operaia emerse nel 1969 dentro il processo produttivo, ovvero come forza di massa in opposizione al regime tayloristico di fabbrica ed al modello di sviluppo su questo centrato.

La violenza studentesca, successiva e non contestuale alla nascita di un movimento nato come urto all’autoritarismo del processo formativo, si manifestò come difesa sia dalla gestione aggressiva dell’ordine pubblico sia dallo squadrismo fascista. La violenza dei gruppi extraparlamentari di sinistra si espresse in origine come forma di rottura di fronte alla crisi dei partiti e della rappresentanza tradizionale, tentando di intercettare l’autonomia operaia e sociale dei soggetti conflittuali emergenti.

Un’impostazione che, nel gennaio 1970, sarà criticata come «spontaneistica, restrittiva e superficiale» dal periodico del Collettivo Politico Metropolitano da cui nacquero le Brigate Rosse.
LA VIOLENZA NEOFASCISTA si sviluppò come reazione contro i movimenti sociali, in un processo che per gruppi come Ordine Nuovo sarebbe deflagrato nello stragismo ovvero nella contrapposizione paramilitare allo spostamento a sinistra degli assetti del Paese.

Dall’uso strumentale della «violenza politica» emerse -come disse nel 1974 il ministro della Difesa Luigi Gui- il «grande equivoco» della «aberrante» formula degli «opposti estremismi» che, per la sua intrinseca ambiguità, fu contestata dalle sinistre e da Aldo Moro ed in ultimo disconosciuta dai suoi stessi teorici.

Paolo Emilio Taviani ricorda nelle sue memorie: «la strategia degli opposti estremismi sbagliava, perché poneva sullo stesso piano da un lato le efferate azioni delle Br incapaci di generare una svolta dittatoriale di sinistra e dall’altra la galassia dell’estrema destra che -al contrario- rischiava di portare realmente a una svolta autoritaria. La strategia degli opposti estremismi prolungò gli anni di piombo». Acceso fautore dell’uso della «violenza politica» come declinazione degli «opposti estremismi» fu il capo dell’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato. L’ultima inchiesta lo indica, in compagnia dei neofascisti, come responsabile della strage di Bologna del 2 agosto 1980.

I POST-FASCISTI invitano a studiare chi critica la loro proposta e allora riportiamo alcuni dati. Uno studio dell’Istituto Cattaneo (Della Porta-Rossi) sugli anni 1969-1975 indica 2.528 episodi di violenza di cui 196 con matrice di sinistra e 1.671 di destra, mentre di 1.708 attentati non rivendicati 175 sono riconducibili alla sinistra e 1.339 alla destra.

Il «Rapporto sull’eversione e sul terrorismo di estrema destra» redatto nel 1982 dal SISDE riferisce di 176 morti e 577 feriti causati dai neofascisti e si aggiunge alle relazioni pubblicate dalle Giunte regionali di Lazio, Lombardia e Piemonte che censirono le migliaia di violenze perpetrate dai gruppi dell’estrema destra negli anni 1969-1975.
CON TALI DATI SI POTREBBE affrontare la questione della correlazione tra violenza e consenso elettorale al Msi. Infatti «fra il 1969 ed il 1972 -ha scritto il politologo Marco Tarchi- l’aumento della violenza di piazza e la crescita della predisposizione al voto missino è strettissima».

Tutto questo al netto delle stragi neofasciste degli anni 1969-1980 realizzate con il decisivo apporto di apparati militari, ceti proprietari e parti affatto marginali della classe politica.
L’INIZIATIVA degli eredi missini rappresenta un fine esplicito di uso pubblico della storia finalizzato al governo di un presente che si vuole proteso al superamento delle radici resistenziali della Repubblica cui i post-fascisti sono estranei. «La teoria degli opposti estremismi -insegna lo storico Enzo Santarelli- costituisce una precisa deformazione dello spirito e della lettera della Costituzione mirando ad un continuo riaggiustamento dell’equilibrio di un potere di classe e di rapporti sociali disuguali che nulla hanno a che vedere con l’antifascismo».

* Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

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