I simboli e i segni del passato e della storia non sono immobili e intangibili, possono sparire ed essere compensati, sostituiti, dimenticati. La storia è fatta sia di iscrizioni, sia di cancellazioni.
Avete presente l’espressione romana «fare la lupa»? Significa andare avanti e indietro, avanti e indietro, in pochi metri, come un animale in gabbia. Infatti l’origine è proprio questa: la lupa di cui si parla è quella, che anche io ho fatto in tempo a vedere, che andava irrequieta avanti e indietro nella gabbia sulle pendici del Campidoglio. Quella lupa era un simbolo della romanità, della nostra identità.
E anche della nostra cultura, delle nostre radici, della nostra Storia. Poi, a un certo momento, è scomparsa. Ne sentiamo la mancanza? Ci siamo per questo dimenticati di essere discendenti di Romolo? (Su che fine ha fatto Remo, l’altro figlio della lupa, lasciamo perdere). Ci siamo sentiti come se ci avessero lasciati senza storia, senza memoria, senza passato? Ce la siamo presa col politically correct animalista? Non credo e non mi risulta. È solo che siamo cambiati e quel simbolo non ci rappresenta più.
Come la lupa del Campidoglio, i simboli e i segni del passato e della storia non sono immobili e intangibili, possono sparire ed essere compensati, sostituiti, dimenticati. La storia e la memoria comprendono anche l’oblio: come ci insegnano in tanti, da Jurij Lotman a Umberto Eco a Jorge Luis Borges, senza oblio non c’è né storia né memoria né cartografia. La storia è fatta sia di iscrizioni, sia di cancellazioni.
Perciò credo che si regga su una errata idea della storia il politically correct che si scandalizza se qualcuno butta a fiume la brutta statua di un mercante di schiavi. Infatti mi domando anche: ma perché è Storia il monumento a Robert E. Lee a Charleston e non sono storia le decine di migliaia di cittadini che vogliono che sia rimossa? La storia è solo passato o anche presente? È storia o no il fatto che non dalla settimana scorsa ma letteralmente da un secolo in qua a Bristol fior di cittadini, compresi il meglio degli storici del posto, chiedevano educatamente di toglierla di mezzo? È o no negazione della storia ignorare questa storia, o parlare senza conoscerla?
Credo che se noi chiamiamo Storia il monumento a Nathan Bedford Forrest, fondatore del KuKluxKlan, che campeggia nel palazzo del governo a Nashville, Tennessee, e non riconosciamo che sono storia anche quelli che vogliono toglierlo e sostituirlo, è perché la Storia siamo Noi – euroamericani liberali cristiani istruiti – e non loro – vandali orde teppisti. Ha ragione Toni Morrison: le definizioni appartengono ai definitori, non ai definiti. Edward Colston, Robert E. Lee, Mussolini, Nathan Bedford Forrest (ricordato in Via col Vento romanzo per la sua bella barba) non ci piacciono ma sono storia nostra, la storia ci appartiene e decidiamo noi chi la tocca e chi no.
Perciò non battiamo ciglio o battiamo le mani quando qualcuno butta giù la storia di qualcun altro, che sia la statua di quel mascalzone di Saddam Hussein a Baghdad o quelle di Marx, Lenin e Stalin in mezza Europa (sono comunista, per Marx mi dispiace ma credo che date le circostanze ne avessero tutto il diritto).
Quando quelli che chiamavamo i «senza storia» irrompono nella storia, sono sempre corpi fuori posto che violano il nostro spazio esclusivo (come Trayvon Martin nel quartiere sbagliato quella sera in Florida). Come si permettono? Anche qui, la scena emblematica sta in Via col Vento: quella in cui si vedono i deputati e senatori “negri” eletti dopo la guerra civile stravaccati sbevazzando sui solenni scranni del parlamento della Georgia (non andò affatto così in Georgia: si può fare grande cinema anche con una menzogna, ma non si può difendere la menzogna in nome della Storia).
Certo che ci saranno errori, esagerazioni, scorie, in questo cambiamento epocale: a proposito dei movimenti di liberazione dal colonialismo e delle occupazioni delle terre nel Sud, Ernesto de Martino avvertiva che la «irruzione delle masse nella storia» non sarebbe avvenuta senza scorie e barbarismi, ma ci invitava ad avere la pietas e l’intelligenza necessaria per partecipare, accompagnare, consigliare e aspettare.
Parte dell’intelligenza consiste nel distinguere. Oltre che vandali e teppisti, i nostri media bollano quelli che vogliono togliere di mezzo le statue di Robert E. Lee e Edward Colson come «iconoclasti». Ora, se alla storia ci teniamo, usiamo correttamente i riferimenti storici: l’iconoclastia è un atteggiamento diffuso in correnti cristiane e islamiche che per svariate ragioni teologiche combatte tutte le immagini in quanto tali (l’opposto di iconoclastia, dicono, è idolatria).
Quello che è in atto adesso è invece una motivata obiezione ad alcuni monumenti e non altri: anche i più radicali antirazzisti e antifascisti sanno distinguere fra l’obelisco a Mussolini Dux e la Pietà di Michelangelo, pur sapendo bene le responsabilità storiche della Chiesa.
Possiamo discutere caso per caso, ma il rifiuto di distinguere e la conseguente riduzione all’assurdo è una rinuncia a quel senso critico che dovrebbe caratterizzare i colti (l’etimologia di critica significa appunto distinguere), una rinuncia che induce persone intelligenti e rispettate ad argomentare seriamente che non possiamo togliere l’omaggio al KuKluxKlan da Nashville perché se no dovremmo abbattere anche il Colosseo a Roma (come se qualcuno oltre loro ne stesse parlando, e come se non sapessimo distinguere fra l’Anfiteatro Flavio e la lupa del Campidoglio).
Quello che difendiamo in questo modo non è il Colosseo, ma il KuKluxKlan. Come ci insegna l’assassinio di Rayshard Broooks ieri ad Atlanta, non è solo a forza di dimenticare il passato ma anche a forza di idolatrarlo che rischiamo di continuare a riviverlo.
PS. La scorsa settimana l’assemblea legislativa del Tennessee ha votato contro la mozione di togliere il busto del fondatore del Kkk, con la sua bella barba, dal palazzo del governo. Si vede che ancora li rappresenta.
* Fonte: il manifesto
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