Questo è un Primo Maggio probabilmente unico nella storia e speriamo non ripetibile. Il modo migliore per festeggiarlo sta nell’impegno a far sì che davvero nulla possa rimanere come prima
La pandemia da coronavirus ha indirettamente costretto ciascuno a rideclinare l’ordine delle priorità, a riscoprire la centralità della nuda vita, a rivedere abitudini troppo spesso lontane dall’essenziale. Il dibattito sulla cosiddetta “decrescita”, o comunque su un diverso modello di sviluppo, di produzione e di consumo, accentuatosi a ridosso della precedente crisi globale una dozzina di anni fa, era forse stato troppo precipitosamente accantonato.
L’attuale emergenza, pur lasciando profonde ferite, pare ora riportare in superficie consapevolezze che avevano avuto robuste radici nel secolo scorso: l’importanza della sanità pubblica, ad esempio. Oppure, quella del lavoro; anche di quello manuale, da tempo trascurato e nascosto. E che occultato ha continuato a essere in queste settimane, mentre crescevano gli asfissianti, ancorché dovuti e necessari, richiami istituzionali allo “stare a casa”, accompagnati da sanzioni ed esorbitanti dispiegamenti di uomini e mezzi tecnologici ad assicurarne il rispetto. Peccato che, parallelamente e all’opposto, le medesime norme disponevano che diversi milioni di persone dovessero invece uscire dalla relativa protezione – per sé e per gli altri – della propria abitazione. Costrette a recarsi, magari con mezzi pubblici diradati e dunque affollati, a svolgere un lavoro qualificato indispensabile non già da criteri oggettivi, di effettiva utilità e urgenza, ma dalle autodichiarazioni dei datori dello stesso. I quali appaiono interessati alla buona salute della propria attività e dei profitti ben più che a quella dei propri dipendenti. Fatto sta che, secondo ISTAT, il 48,7% delle attività economiche sono rimaste attive.
Il costo umano e sociale di questa logica è evidente, certificato dai numeri dell’epidemia, in particolare di quelli che riguardano la Lombardia, dove sono rimaste aperte 450mila imprese su 800mila. Cifre che fanno risaltare il vuoto di visione e di gestione della politica, che dovrebbe essere attenta all’equilibrio degli interessi e, nel caso di conflitto insuperabile, capace di assicurare la predominanza di quelli pubblici e generali. Non solo perché ovvia e necessaria a contenere il disastro che stiamo vivendo, ma perché dovuta al rispetto delle leggi, a cominciare da quella suprema costituzionale. Vi sono certo anche leggi o comunque necessità del sistema economico che occorre tenere presenti, ma non a ogni costo, non a discapito della vita di ciascuno e della salute di tutti.
Per costruire il “dopo” occorre allora ragionare sul prima. Tanto più che una delle lezioni che andrebbero ricavate è esattamente l’esigenza, non più rinviabile, di una rivisitazione del sistema globale, perché è anche dalle sue storture – in specifico quelle legate all’agribusiness, alle deforestazioni e agli allevamenti intensivi – che originano quelle malattie zoonotiche di cui fa parte anche il dannato coronavirus.
Come in tutte le situazioni-limite, anche in questa si è tuttavia assistito a un contagio benefico e rovesciato rispetto agli egoismi dei profittatori: quello del mutuo aiuto e del pronto soccorso a chi – e sono tanti, destinati a crescere – in mezzo a questa crisi si è ritrovato senza assistenza e perfino senza cibo o alloggio.
Qualche sindaco, come a Grugliasco, è arrivato a organizzare ronde di “volontari” per vigilare sull’osservanza dei divieti, come non bastassero esercito, droni, elicotteri e geolocalizzatori. In molti luoghi si è invece attivata una ben diversa solidarietà, spesso favorita da altri e più avveduti sindaci, ma perlopiù nata dal basso: da quelle ONG e associazioni osteggiate e criminalizzate dai Minniti prima e dai Salvini poi. Ma anche, e forse meno prevedibilmente, da quel tessuto informale e molecolare di buoni sentimenti e buone pratiche che ha resistito a questi decenni di predicazione di darwinismo sociale, di enfatizzazione dell’individuo e della competizione come fondamento della struttura della società.
L’idea di selezione del più forte, quale quella inizialmente teorizzata dai Boris Johnson quale miglior fronteggiamento della pandemia, è stata rifiutata dai cittadini. Così si è assistito al proliferare della solidarietà di condominio, di isolato e di quartiere, accompagnata da fantasiose e vitali forme di socialità a distanza, a ribadire che il legame sociale è ciò che dà senso, forma e futuro alla vita di ciascuno.
Il Primo Maggio è Festa dei Lavoratori, più che del lavoro. Storicamente, ha radici nei loro diritti negati e nelle lotte e rivendicazioni per ottenerli, a partire da quello alla sicurezza e dunque, di nuovo, alla salute e alla vita. Seppure in taluni casi – decisamente assai limitati – quest’ultima viene gratificata dal lavoro, quando esso non venga ridotto e svilito a merce, è invece il reddito che la garantisce e ne consente condizioni di dignità. Un reddito per tutti come condizione di esistenza, o, se si preferisce, un «salario universale», quale quello che il Papa ha proposto il giorno di Pasqua, pensando in particolar modo all’universo crescente, dolente e trascurato dei precari.
Questo è un Primo Maggio decisamente eccezionale, probabilmente unico nella storia e speriamo non ripetibile. Il modo migliore per festeggiarlo consiste nella promessa e nell’impegno a far sì che davvero nulla possa rimanere come prima. Cambiare o morire: è la lezione che ci viene da una natura stressata all’estremo, da diseguaglianze ormai intollerabili, da un pianeta troppo a lungo violentato. Esigono una riconversione ecologica dell’economia e stili di vita profondamente differenti. Ascoltiamo finalmente quel grido, prima che sia troppo tardi.
Sergio Segio
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