Il miracolo della radio mi ha regalato la notizia più attesa: la Corte suprema di giustizia ha respinto il ricorso presentato dalla difesa dell’animale, del criminale, dell’assassino, del ladro
Un intervento dello scrittore uscito originariamente sul manifesto del 6 gennaio 2005. Ora la tenue luce della giustizia si lascia vedere fra il fumo della Moneda in fiamme
Solo poche ore fa stavo accomiatandomi da mio figlio Sebastián all’aeroporto di Gijón. Come sempre cercavo di mascherare la tristezza dell’addio dietro un paio di battute, e ho visto che il mio giovanotto di vent’anni, per mano con la sua fanciulla, mi mandava dei segnali prima di entrare nella sala d’imbarco. Come sempre, dal momento che l’uomo è un animale di costumi protettivi per assurdi che essi appaiano, sono rimasto lì finché l’aereo è decollato. Come sempre, ho fatto il conto dei giorni e delle ore passati insieme e mi sono soffermato sul ricordo di una camminata sulla spiaggia solitaria mentre lui mi chiedeva di parlargli del mio ultimo viaggio in Cile.
Emozionato, gli ho raccontato che era stato un bel viaggio, che mi ero incontrato con i miei vecchi amici, con i miei cari compagni della guardia del presidente Allende, e che lentamente cominciavo a pensare al mio ritorno.
MIO FIGLIO esibiva con orgoglio una maglietta del Forum sociale cileno, il bel disegno di Federica Matta risplendeva nella luce marina. «Quell’animale è sempre lì, senza che nessuno lo tocchi?», mi ha chiesto all’improvviso. Sì, l’animale, il criminale, l’assassino, il ladro era sempre in Cile, protetto dalla più odiosa impunità. Staremo bene in Cile. Avrò un paio di cavalli, ho risposto per allontanare quella presenza vergognosa.
Quando l’aereo di mio figlio era sparito dal pannello delle partenze, sono ritornato alla macchina, ho acceso il motore e allora il miracolo della radio mi ha regalato la notizia più attesa: la Corte suprema di giustizia aveva respinto il ricorso presentato dalla difesa dell’animale, del criminale, dell’assassino, del ladro, e lui dovrà affrontare il processo che aspetta la società cilena, i cileni che vivono fra la cordigliera e il mare, quelli che vivono nella diaspora, quelli che sono nati sotto altri cieli e sono cresciuti con il nostro amore per il lontano paese disseminato di isole.
Confesso di aver creduto che questo giorno così atteso non sarebbe mai arrivato, e non per sfiducia nella giustizia, bensì in quelli incaricati di amministrarla. Quante vite si sarebbero salvate se i tribunali cileni avessero accettato i ricorsi presentati dai familiari dei desaparecidos, degli assassinati nei centri di detenzione e di tortura, degli sgozzati di notte e nelle ore in cui solo i criminali potevano muoversi per le strade del Cile?
Fra il 1973 e il 1989 furono presentati migliaia di ricorsi d’urgenza, i familiari arrivavano con testimoni che avevano assistito alle detenzioni, ai sequestri, ai furti di persone, e nessuno fu accolto perché la giustizia era nelle mani di prevaricatori, di complici del dittatore.
NON CREDEVO che questo giorno fosse possibile, però allo stesso tempo, poiché conosco e ammiro la storia civile del mio paese, ho sempre cercato di convincermi che il processo contro Pinochet è cominciato quando l’ultimo difensore del palazzo della Moneda sparò l’ultimo colpo in difesa della costituzione e della legalità.
Non sarà giudicato per tutti i suoi crimini, ma solo per alcuni, comunque tanto selvaggi e bestiali come tutti quelli che ordinò dalla sua codardia di satrapo, dalla sua viltà di essere mediocre e ottuso, dal fetore del suo tradimento. Però sarà giudicato, con tutte le garanzie che noi non avemmo, e ci rallegra che sia così perché noi crediamo nella giustizia.
È dovere di tutti vegliare perché non gli capiti nulla, perché la sua salute si conservi, perché non gli manchi niente, e se è necessario fare una colletta pubblica per tenerlo vivo, facciamola. Quanto dobbiamo pagare?
Quel che importa è che mio figlio, i figli di tutti quelli che hanno sofferto, e le vedove e i genitori che seppellirono i loro figli, e le fidanzate dai corredi frustrati, e le nonne che si ritrovarono senza i destinatari delle loro carezze vedano l’animale fascista, il criminale venduto, l’assassino di sogni, il ladro di vite e di beni, fotografato di fronte e di profilo, con il suo numero da delinquente sotto la mascella, lasciando le impronte digitali delle sue grinfie nell’inchiostro nero del la vergogna. È questo che importa.
MENTRE SCRIVO queste righe, mio figlio Sebastián vola verso la Germania e io ricordo la passeggiata sulla spiaggia deserta. Quando gli ho raccontato del mio ritorno a El Cañaveral, quel luogo sacro fra i monti dove il Dispositivo di sicurezza del presidente Allende, il Gap, si preparava a difendere la vita dei nostri dirigenti, di coloro che si erano fatti carico di realizzare il più bel sogno collettivo della mia generazione. Là, insieme a «Patán», «Galo», «El Pelao» e altri dei migliori, dei più coraggiosi compagni che abbia mai conosciuto e la cui amicizia è il mio grande orgoglio, ricordavamo senza retorica quel sogno pieno di aneddoti e di gioventù.
So che loro condividono la serena allegria per questo giorno, per questo giorno tanto atteso, in cui la tenue luce della giustizia si lascia vedere fra il fumo della Moneda in fiamme, fra i volti luminosi di tutti i compagni del Gap che caddero e che non sono mai scomparsi dalla nostra memoria.
* Fonte: Luis Sepúlveda, il manifesto
ph by Joson / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)
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