SCAFFALE. Per Manni, il romanzo «L’arsenale di Svolte di Fiungo» di Loris Campetti
Sono stati tanti finora i romanzi, e i film – una litania, a volte molto importanti a volte assai ripetitivi -, che hanno raccontato la lotta armata in Italia, quella del «terrorismo rosso» di chi auspicava una scorciatoia a dir poco sbagliata per la rivoluzione comunista, che invece piuttosto che di avanguardie che vanno a sostituirsi ai rappresentanti del potere borghese, dovrebbe perlomeno essere di massa, sociale e così profonda da costruire nuove forme del potere stesso. Ma nessuno che noi sappiamo ha finora raccontato il dolore e lo sgomento di chi, innocente, veniva accusato di organizzare a mano armata la rivoluzione. Ha rimediato con un sapiente quanto innovativo romanzo, Loris Campetti del quale siamo abituati a leggere – come accadeva su il manifesto – le inchieste sulla condizione operaia e sulle fabbriche. Stavolta invece con L’arsenale di Svolte di Fiungo (Manni editori, pp. 170, euro 14) è a un romanzo vero e proprio che ci troviamo di fronte, inserito nel contesto storico che, dalla strage di Piazza Fontana del dicembre 1969 per attraversare tutta la stagione che i governi democristiani gestirono come quella degli «opposti estremismi», cambiò per una generazione la percezione insieme della storia ma che della vita di tutti giorni.
FATTO SINGOLARE, è scritto in prima persona, così tanto che sembra accadere sotto i nostri occhi, nella forma del resoconto autobiografico. Sì, perché quel che è scritto è accaduto davvero, vuole ricordarci Campetti. È accaduto che la provocazione del sistema fosse così diffusa e preparata per rispondere agli stravolgimenti in corso del ’68 studentesco e delle esplosione di lotte operaie, che permeava di sé ormai l’intera realtà della provincia e delle periferie – scoprimmo poi che esisteva Gladio, il terrore di destra e dello Stato, capillare, nascosto, disseminato e «sotterrato» ovunque.
L’innocenza non è facilmente raccontabile e può diventare retorica di sé. Qui invece l’autore costruisce una scrittura di confessioni minime che lo trasformano in un picaro fantozziano-kafkiano, sospeso tra il tragico e il comico. Tragico, perché è «semplicemente» indagato per associazione sovversiva dopo che vicino Macerata nella sua città natale, a Camerino viene «scoperto» un arsenale di armi attribuito subito al terrorismo rosso, e la «prova» è una cartina geografica dettagliata con i cerchietti di pennarello rosso del luogo, acquistata però per andare a funghi: siamo nel pieno di una surreale ma, ahimé, concretissima macchinazione che alla fine – ma dopo molti anni – nei dettagli verrà scoperta e finirà raccontata perfino nelle trame nere, del potere e dei suoi Servizi più o meno deviati, della Strage di Stato; intanto conviene deviare e fuggire, diventare latitante suo malgrado, non «eroicamente» come chi avrebbe messo in conto quel mascheramento di sé, perché alla fine – infittendo le paure del protagonista – il terrorismo rosso arrivò davvero. Ma dove? E con chi parlarne? Quale ambiente rendere partecipe dell’ansia improvvisa e dell’insicurezza che ormai mette in discussione tutto, comprese le esperienze di vita finora realizzate?
PER UN MILITANTE critico ancora del Pci è uno stravolgimento di senso della realtà, uno svelamento del clima generale di lotta e cambiamento ma senza ancora avere ben capito quali siano la «armi» del potere nemico. E allora compare l’aspetto minuto e perfino divertente che aiuta il fuggiasco a trovare nella solitudine gli interlocutori necessari: se non le vesti della mamma lo zio stalinista che si chiama Lontano; e nei ripari dov’è costretto a cambiare nome, i vecchi militanti che, dopo un interrogatorio di verità, lo accolgono in casa come un figlio pronti ad ospitarlo aprendo gli armadi a letto…Sempre continuando a vivere e a lavorare in clandestinità, da rappresentante di farmaci a collaudatore di macchine Fiat, e finendo pure – dopo le prime indagini che solo in parte chiariscono le accuse – abile alla leva. Nel frattempo ha aderito al Manifesto, e sotto la Naja coordina i collettivi dei soldati legati al nuovo e nostro gruppo politico, più rischioso che mai vista la sua condizione. Nella trama di una vicenda, anche per le origini familiari, intessuta di una memoria presente di lotta partigiana, epica comunista, eresia manifestina.
NELL’ATMOSFERA dell’Italia degli anni Settanta, che perdeva la serenità e si ammantava di nubi incerte da qualcuno spiate, dove ancora si beve spuma e il fiasco dei Castelli; e se il sottofondo musicale è l’Internazionale, arrivano pure le canzoni di Jimmy Fontana e di Paul Anka mentre l’autore corre a Recanati, vicino casa, per vedere «se la siepe di Leopardi è sempre al suo posto». Solo verso la fine compare una bottiglia di champagne per brindare, con l’atto del processo che terrà conto delle ammissioni pubbliche dei fascisti, e confortato dall’avvocato Di Giovanni, protagonista di tante arringhe di quella temperie e dalle storiche inchieste del giudice milanese Guido Salvini. Ma, tra corsi e ricorsi, ci vorranno quaranta anni per la fine di quella provocazione. Sì, la voglia è di brindare alla capacità di tenere nel lungo periodo vivo e cogente il proprio «arsenale». Non deposito di armi, ma il cuore, la mente e la passione di una generazione di militanti comunisti che, nonostante i tentativi vicini e lontani di confondere le tracce delle loro vite e di manipolare le loro volontà, hanno conservato la posizione dell’orizzonte. Il resto, ne vale la pena, è tutto da leggere, da scoprire.
* Fonte: il manifesto
0 comments