GIAIME PINTOR. Due volumi delle Edizioni Ensemble dedicati alla figura dell’intellettuale. Nato cento anni fa, sarebbe caduto combattendo nel 1943 nei primi mesi della lotta di Liberazione
«Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile». Raccontare la breve esistenza di Giaime Pintor, morto a ventiquattro anni su una mina tedesca, a Castelnuovo al Volturno, in Molise, durante il compimento di un’azione di infiltrazione nel territorio occupato dai nazifascisti, è ripercorrere la traiettoria di una generazione di intellettuali che si formò all’ombra del fascismo per poi, nel mentre stesso in cui il regime ancora celebrava i suoi declinanti fasti, distaccarsene con motivazioni proprie. Prima ancora che a un’opposizione politica, il dato che emerge è quello di una rivolta ideale e morale, che si incanala progressivamente verso esiti di rifiuto esistenziale.
Ci aiutano in questo percorso di scavo nella coscienza nazionale e continentale le Edizioni Ensemble di Roma che, con la ristampa del Sangue d’Europa. Scritti politici e letterari (a cura di Andrea Comincini, pp. 291, euro 15) e del romanzo testimonianza di Carlo Ferrucci, La mina tedesca (pp. 203, euro 16), ci restituiscono un quadro d’insieme. Anche e soprattutto dopo le polemiche, a volte impietose, sui modi e i termini da adottare per capire certe scelte.
NEL CASO DI GIAIME, la voracità intellettuale e la bulimia culturale sono i vettori su cui modella progressivamente una precisa identità, che è solo in parte tributaria dello spirito dei suoi tempi, semmai interrogandosi su quelli a venire. Le domande rimarranno nel suo caso senza risposta, di fatto cadendo in combattimento nei primi mesi della lotta di Liberazione. Saranno quindi altri che se ne faranno latori, a partire dal fratello Luigi.
L’origine famigliare sarda, in un ambiente che dell’interconnessione tra formazione culturale, al limite dell’erudizione leopardiana, e ruolo sociale, aveva fatto la sua ragione d’identità, è senz’altro un primo calco dal quale partire. L’incontro con Roma, fin da piccolo, costituisce un’altra tappa importante. Se l’infanzia cagliaritana fu segnata dalla condizione di felice abbandono a sé e alla propria famiglia, ben presto l’irrequietezza di Giaime iniziò ad emergere, con una sorprendente precocità, dal momento che il rapporto con la lettura e la conoscenza si costituirono in lui come una sfera di identità autonoma. Alla curiosità, peraltro, si legava sempre più spesso l’insofferenza. Se negli anni della formazione adolescenziale ciò poteva essere ancora inteso come un tratto di distinzione tipico di un’età che cercava di perimetrare il proprio sé, il trasferimento al Roma nel 1935, sua città elettiva, per concludere gli studi liceali, ne segnò l’atto di autonomia.
Fondamentale fu il salotto della casa degli zii, che ospitava una nutrita congerie di amici e interlocutori, dal filosofo Giovanni Gentile a Lucio Lombardo Radice, quest’ultimo poi pedagogista e matematico di vaglia, che erano parte del gruppo dei giovani intellettuali comunisti (Antonio Amendola, Bufalini, i fratelli Natoli) presenti nella capitale. Non si trattava di iniziare a svolgere un lavoro politico ma di intessere la tela delle reciprocità. Le quali, poi, avrebbero comunque influito enormemente nell’evoluzione del radicamento sociale e culturale dei risorti partiti antifascisti.
La cifra di Giaime, in quegli anni di prodromi e premesse del cambiamento, è quella di un’immedesimazione diretta, senza mediazioni, nei temi culturali, alla quale si accompagna, in forma di autodifesa, un distacco ironico, a tratti sarcastico, ma comunque individualistico, dal fascismo più grottesco. L’avvio degli studi universitari, nella facoltà di giurisprudenza, e la partecipazione ai Littoriali, costituirono un ulteriore momento di transizione. Poiché fu in quelle circostanze, per un giovane uomo che per tutta la sua breve esistenza rimase essenzialmente un letterato, traduttore novatore di autori tedeschi, germanista in erba e in fiore, che il problema di raccordare lettere ad azioni, pensieri a scelte, iniziò a formularsi appieno.
Se l’Europa si stava consegnando con sufficiente inconsapevolezza alla tragedia di una guerra mondiale, tra quel gruppo di giovani cresceva invece un disagio che si sarebbe poi tradotto in contrapposizione attiva. Sul piano intellettuale era il rigetto dell’irrazionalismo fideistico che stava lievitando come corredo e legittimazione della violenza che si sarebbe scatenata di lì a poco; sul piano etico era la messa in discussione del primato di un’inesistente moralità fascista; sul piano politico, infine, diventava la negazione della statolatria fascista ma anche del suo antipluralismo. Proprio dal lavoro di traduttore dal tedesco, e di filologo, il giovane intellettuale trasse e maturò la convinzione che la realtà è assai più complessa di quelle raffigurazioni che intendono incapsularla in pochi paradigmi.
COME TRADUTTORE di Rainer Maria Rilke (poi di Kleist, Trakl, Arnim, Jünger e altri ancora), e pubblicista, si adoperò in un duplice lavoro: liberare i versi dalla ridondante retorica dannunziana, riprodottasi in molteplici registri, ed evitare che l’intero apparato poetico tedesco fosse inghiottito dalla rutilante autoraffigurazione del nazismo, affermatosi in Europa come vera e propria mitopoiesi, capace di ingoiare anche il patrimonio letterario tedesco. Nel 1940, pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia, si laureò e partì per il servizio militare, che svolse con crescente demotivazione, irritazione ed infine estraneità, come ufficiale subordinato. Il trasferimento a Torino per motivi di servizio, gli valse una grande opportunità, quella di entrare in contatto e poi collaborare attivamente con il cenacolo della casa editrice Einaudi (Massimo Mila, Leone Ginzburg, Felice Balbo, Cesare Pavese).
Più la crisi bellica si incancreniva, maggiore era l’intransigenza che Pintor e i suoi amici e colleghi andavano maturando. La consulenza editoriale gli era facilitata dalla grande capacità di cogliere una molteplicità di aspetti della trasformazione in atto, potendo fare affidamento sulla sua poliedricità intellettuale. La repentina caduta del regime lo fece quindi rientrare a Roma da Vichy, dove era stato nel mentre trasferito come aggregato alla missione militare italiana. Nella capitale rimase fino ai primi giorni di settembre, lavorando prima all’ipotesi di una testata giornalistica, poi all’intelaiatura di rapporti e scambi tra i partiti antifascisti e l’esercito. Pintor, tuttavia, era e rimaneva anche un militare. La crisi dell’8 settembre, quindi, fu da lui vissuta non più in chiave di sollecitazione intellettuale ma soprattutto in termini operativi. Più che il maturare dell’antifascismo come cultura politica, contava il viverlo come primato dell’opposizione ai fatti. «A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in un’organizzazione di combattimento».
Prima partecipò agli scontri a Porta San Paolo, poi si mosse verso Brindisi, dove nel mentre erano riparate le autorità regie. Benché si fosse messo a loro disposizione, dinanzi al tracollo in atto e all’inettitudine di ciò che restava dei comandi («dopo essermi convinto che nulla era cambiato tra i militari»), decise di abbandonare la città andando a Napoli, dove, nel mentre, mentore Benedetto Croce, si stava cercando di costituire un corpo di volontari, comandato dal generale Giuseppe Pavone. Fallito anche questo tentativo, infine si aggregò si servizi di intelligence dell’esercito britannico, con l’incarico di assumere il comando di un piccolo gruppo di combattenti.
TRE GIORNI PRIMA di morire scrisse l’accorata, dolente e lucidissima lettera-testamento al fratello Luigi, manifesto generazionale: «oggi in nessuna nazione civile il distacco tra le possibilità vitali e la condizione attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato d’emergenza». Parole che sembrano riecheggiare in qualche modo lo stato presente delle cose. Pintor non fu icona ma rimase uomo. Come tale, incorporando anche conflitti interiori. Il resto, francamente, rimane eco solo di una vacua e sterile polemica, in una battaglia di parole dove non si sente mai il trascorso riecheggiare del piombo.
* Fonte: il manifesto
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