Il varco verso l’abolizione totale dell’ergastolo ostativo, quello che non lascia alcuna speranza al condannato, quello che lo rende un “uomo ombra” senza possibilità di redenzione, è stato aperto. Con una «sentenza storica», come la definiscono in molti, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo negare automaticamente i permessi premio a quei reclusi a vita che non vogliono collaborare con la giustizia ma che magari hanno dimostrato un profondo cambiamento interiore.
La Consulta, riunitasi ieri in Camera di consiglio per analizzare i ricorsi in Cassazione e al Tribunale di sorveglianza di Perugia dei due mafiosi condannati all’ergastolo, Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, cui sono stati negati i benefici penitenziari, ha deciso infine di non fare differenza tra reati di mafia, terrorismo, corruzione, violazione delle leggi sulle droghe o sull’immigrazione o condannati per gli altri reati contemplati nell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. Però, delle varie voci connesse al primo comma – «lavoro all’esterno, permessi premio e misure alternative alla detenzione» -, i giudici costituzionalisti si sono soffermati solo sui permessi premio.
E hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di quella parte del 4 bis comma 1 che vieta «la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente – recita il comunicato della Consulta – il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo».
UN PRONUNCIAMENTO che ha mandato subito in tilt le forze politiche che sul «buttare la chiave» hanno fatto la loro fortuna. Anche il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha chiesto subito agli uffici del ministero di analizzare le possibili conseguenze, perché, ha detto, «la questione ha la massima priorità».
«IN ATTESA DI CONOSCERE il testo della sentenza si può comunque evincere dal comunicato della Consulta, che è molto chiaro, il portato storico di questa decisione, perché va ad erodere il meccanismo ostativo», commenta il costituzionalista Marco Ruotolo, docente dell’Università Roma Tre.
Si legge infatti sul dispositivo che la Corte, «pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti, ha sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti)».
Ruotolo fa poi notare al manifesto che «nell’indicazione finale, i giudici aprono un varco importante, così come avvenne con la custodia cautelare, perché la preclusione assoluta viene trasformata in preclusione relativa». Tornando al testo del comunicato, si legge infatti: «In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica».
«È una sentenza importante, tuttavia la Consulta non ha abbattuto l’ergastolo ostativo – commenta Emilia Rossi, componente del collegio del Garante dei detenuti e suo rappresentante davanti alla Consulta in questo procedimento -: ha superato l’assolutismo e ha restituito al giudice di sorveglianza la possibilità di valutare il recupero della persona e al condannato la possibilità di dimostrare la propria risocializzazione. Quello dei permessi premio è un beneficio di particolare rilievo perché tocca i legami affettivi e familiari, che sono il primo passo di risocializzazione».
IN MOLTI SI AUGURANO ora, dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo e il pronunciamento di ieri, che la politica agisca di conseguenza, «in nome del principio di legalità costituzionale», come esorta l’associazione Antigone. «È un primo passo nell’affermazione del diritto alla speranza», afferma Nessuno tocchi Caino.
MA A FARE PIÙ RUMORE sono le voci di dissenso, come quella del consigliere del Csm Nino Di Matteo che ha lanciato un grido d’allarme e un appello alla «politica» a «reagire prontamente» per «evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo». Un’affermazione di «straordinaria gravità», secondo il presidente degli avvocati penalisti, Giandomenico Caiazza, perché si muove in direzione contraria al nostro «assetto democratico» di «equilibrio tra i poteri». Una sponda a Di Matteo la offrono però in molti: la Lega, il M5S e FdI lamentano un «regalo alle mafie», ma persino il segretario Pd Nicola Zingaretti a Porta a Porta parla di «sentenza un po’ stravagante», con la quale «non mi sento in sintonia». La strada è ancora lunga.
* Fonte: Eleonora Martini, il manifesto
Foto: Pixabay CC0 Creative Commons
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