Operazioni come quella messa in essere dall’amministrazione triestina con la volenterosa complicità del Vittoriale degli Italiani, sono culturalmente sbagliate e politicamente inquietanti
Le nostre date civili sono e restano altre, l’8 settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45 (aggiungerei anche il 2 giugno del ’46)
E dunque il revanscismo avanza. Oggi 12 settembre, alle ore 12, a Trieste verrà inaugurata la contestata statua a D’Annunzio, nel centenario esatto dell’ingresso di Gabriele d’Annunzio a Fiume, alla testa di una banda di coloro che poi vennero chiamati «legionari». La Fondazione del Vittoriale degli Italiani, sotto la presidenza di Giordano Bruno Guerri, in accordo con l’amministrazione di destra della città di Trieste, incuranti delle proteste sono andati avanti.
Il connubio tra giornalisti con il vizio della storia e amministratori con il vizio della politica, gli uni e gli altri sotto le insegne della mistificazione e della banalizzazione, segnano un altro punto a favore del revisionismo.
ABBIAMO GIÀ PARLATO sul manifesto della mostra inaugurata qualche tempo fa, sempre sotto l’ovvia direzione di Guerri, che in quella occasione si era esibito in una cabarettistica conferenza pseudostorica.
La «storia» piace così, a certi amministratori. I quali, peraltro, non esitano a servirsi dello studioso di turno, meglio se si tratti di un dilettante, più che un professionista della ricerca, per portare acqua al mulino delle «ricadute turistiche» sui propri feudi. Il turismo, il commercio, conta almeno quanto, se non di più dell’ideologia. Che viene opportunamente conformata, per giustificare spese folli, iniziative culturalmente claudicanti, imprese politicamente pericolose come questo ritorno di fiamma per il dannunzianesimo politico. Gli amministratori triestini hanno un bell’insistere sul D’Annunzio letterato, ma celebrano l’ideologo, e se glielo si fa notare, replicano identificando l’avventura fiumana, vera chiave d’accesso all’eversione fascista di tre anni più tardi, nel carattere progressivo della Carta del Carnaro, ossia la Costituzione elaborata sostanzialmente da Alceste De Ambris, una interessante figura di anarco-sindacalista per Fiume (poi morto in esilio in Francia da antifascista), un confuso documento, peraltro mai reso concreto, tanto più che furono i nazionalisti, guidati da Giovanni Giuriati, a diventare gli sponsor della Fiume dannunziana, emarginando la componente anarcosindacalista.
PURTROPPO LA STORIA, nelle mani di amministratori e di mestieranti, può diventare un oggetto pericoloso. In una intervista al giornalista Stefano Lusa, l’assessore alla Cultura di Trieste riesce a fornire una serie di grottesche strampalerie, con un D’Annunzio campione liberale, maestro della libertà di pensiero, e Fiume faro che getta la sua luce rivoluzionaria sull’avvenire, sotto il segno dell’uguaglianza.
Una rivoluzione che «non tagliava le teste», «come quelle che si sono sviluppate dopo», bensì una rivoluzione «del pensiero e della cultura». E la Carta del Carnaro (che sarebbe stata una delle fonti di Giuseppe Bottai, nel 1927, per la sua Carta del lavoro!), diventa «un documento avveniristico», e ancora, «un atto illuminante che prospettava una civiltà del futuro».
E, dulcis in fundo, scopriamo che D’Annunzio è stato «un precursore di quello che dovrebbe essere un mondo migliore, una civiltà migliore, una democrazia migliore».
PER FORTUNA DELLA VERITÀ storica e della decenza politica non tutti si sono bevuti a Trieste queste favole, e in contemporanea all’inaugurazione della scultura, a Ronchi dei Legionari (che è stato già ribattezzata come Ronchi dei Partigiani!) hanno organizzato una contromanifestazione, ribadendo le ragioni del No, anche in concordanza con le reiterate prese di posizione del sindaco di Rijeka (Fiume), Vojko Obersnel, che invano ha protestato contro l’ondata di stolto revanscismo dalmata-giuliano. Nel documento diffuso dai gruppi triestini di «Resistenza storica» si ricorda il lascito nazionalista dannunziano-fiumano, che fu una delle grandi matrici del fascismo, persino, va detto, al di là del confuso pensiero politico del «Vate». La violenta «snazionalizzazione» di terre slave, la persecuzione della popolazione indigena, che avrebbe preparato gli orrori dell’occupazione della Jugoslavia nella Seconda guerra mondiale, e così via- E si ricorda che certamente il 12 settembre del ’19 non richiama una data da festeggiare, tutt’altro.
LE NOSTRE DATE CIVILI sono e restano altre, l’8 settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45 (aggiungerei anche il 2 giugno del ’46). E che operazioni come quella messa in essere dall’amministrazione triestina con la volenterosa complicità del Vittoriale degli Italiani, sono culturalmente sbagliate e politicamente inquietanti.
Forse gli storici di mestiere qualche domanda dovrebbero porsela, sulla loro scarsa e lenta reattività rispetto all’uso e soprattutto all’abuso pubblico della storia, che produce mostricciattoli (in ogni senso) come la mostra su Fiume e il monumento a D’Annunzio.
O vogliamo aspettare inerti il prossimo passo? Magari la celebrazione del 28 ottobre 1922, quando un’altra marcia, quella su Roma, modellata sull’esempio dannunziano, portò al potere un certo Mussolini…
* Fonte: il manifesto
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