Finirono in manette o deportati nell’isola prigione di Goli Otok perché sospettati di essere quinte colonne sovietiche, poi rimpatriati in Italia o espatriati in Cecoslovacchia. In rotta con il Pci di Togliatti dopo la svolta di Salerno e poi cacciati da Tito come stalinisti
POLA. Quella dei cantieri navali dell’attuale Croazia è una storia che ci riguarda. Con il termine «monfalconesi» si fa genericamente riferimento ai circa 2.500 lavoratori italiani che tra il 1946 e il 1948 si trasferirono nella neonata Repubblica federale jugoslava a margine della sistemazione del confine orientale tra Italia e Jugoslavia, che avverrà definitivamente solo nel 1975, dopo un precedente memorandum temporaneo che risaliva al 1954.
Quasi tutti questi «monfalconesi» erano lavoratori della Cantieri Riuniti dell’Adriatico (attuale Fincantieri), specializzati in cantieristica navale e provenienti dalle zone vicine al posto di lavoro, quindi non necessariamente dalla vicina Monfalcone, ma anche da altre zone. Il nome per identificarli però, nella vulgata popolare, restò quello per sempre.
Molti di loro portarono con sé la famiglia, quasi tutti erano convintamente comunisti, delusi dalla svolta istituzionale del Pci di Palmiro Togliatti. Considerata la specializzazione della loro formazione, quasi tutti andarono a lavorare nei cantieri navali di Fiume (oggi Rijeka) e Pola (oggi Pula), allora ancora devastati dal conflitto bellico e tuttavia strategici nell’edificazione della Jugoslavia. Eppure l’idillio non durò a lungo: nel 1948 il maresciallo Tito rompe con Stalin e molti «cominformisti», come venivano chiamati gli ortodossi stalinisti, finiscono in manette o deportati nell’isola prigione di Goli Otok (in totale circa 40) in quanto sospettati di essere quinte colonne sovietiche. In alcuni casi in effetti intervennero pubblicamente in tal senso, come in quelli degli operai, tra cui spiccavano le personalità politiche del lombardo Alfredo Bonelli, del sardo Andrea Scano e del friulano Giovanni Pellizzari, tutti reduci dalle prigioni fasciste o dal confino, o anche dalle Brigate internazionali che avevano combattuto in Spagna – , che nell’aprile del 1949 distribuirono manifesti pro sovietici a Fiume.
Alcuni vennero inviati a lavorare nelle miniere di Tuzla e Zenica, nell’attuale Bosnia-Erzegovina, altri ancora riuscirono a cavarsela, finendo poi per lo più rimpatriati in l’Italia o estradati verso la Cecoslovacchia.
Ma nel sentire popolare è sempre rimasta e rimane tutt’ora l’eco di un’epopea che racconta di operai sopravvissuti al fascismo, con le cellule clandestine nei cantieri, che cantavano l’Internazionale mentre venivano tradotti a forza in miniera.
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* Fonte: IL MANIFESTO
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