La lettura. L’intervento di Rossana Rossanda al convegno su Antonio Banfi in senato
«In piena guerra, leggemmo le 16 pagine di Antonio Banfi su quale fosse la scelta morale: pronunciarsi contro il proprio paese o difendere il regime repubblichino. La coscienza del carattere problematico delle idee, la critica alle ’anime belle’, il rilievo dei presupposti concreti, un realismo estremo e deciso, verso sé e verso gli altri»»
Si è svolto il 18 luglio 2019 nella biblioteca del Senato a Roma il convegno intitolato “Antonio Banfi, intellettuale e politico”. Promosso dal Presidente del Comitato per la biblioteca e l’archivio storico del Senato, Gianni Marilotti, in collaborazione con l’Ufficio studi del Gruppo Pd, sono intervenuti Aldo Tortorella, Roberto Rampi e Fabio Minazzi.
Il testo che pubblichiamo è quello dell’intervento inviato da Rossana Rossanda, allieva di Antonio Banfi, che racconta l’oggetto degli studi di un gruppo di giovani nel pieno dell’occupazione nazifascista, della Resistenza e della guerra. Ragazze e ragazze che, anche attraverso quelle letture e quegli studi, maturarono scelte consapevoli.
Oggetto del nostro studio è il saggio “Moralismo e Moralità” edito da Banfi nel n. 1-2 della rivista “Studi filosofici”. Esso è stato pubblicato nel 1948; non ne abbiamo l’originale ma la ristampa a cura del “Centro studi Antonio Banfi” della provincia e del comune di Reggio Emilia uscito nel 1946.
Infatti la rivista di Banfi, redatta soprattutto da lui medesimo in qualità di direttore con l’aiuto dei suoi allievi Enzo Paci, Giulio Preti, Remo Cantoni e del collega Giovanni Maria Bertin, senza avere la pretesa di indicare una scuola, ma un complesso di problemi filosofici urgenti, è uscita in un anno straordinario.
Il 25 luglio del 1943, in piena guerra, aveva avuto luogo la riunione dell’organismo dirigente del Partito Nazionale Fascista, il Gran Consiglio del Fascismo, nel quale si era spaccato il partito e, soprattutto per l’attività di Dino Grandi, Mussolini era stato messo in minoranza e aveva finito con l’essere arrestato in nome del re Vittorio Emanuele III.
Venne quindi rinchiuso in un albergo adibito a carcere in Abruzzo a Campo Imperatore da dove sarebbe stato liberato, naturalmente senza l’accordo del Regno d’Italia, dall’incursione di un ufficiale ungherese – Otto Skorzeni – riparando poi in Germania.
In quel periodo, e precisamente sul finire dell’estate, l’Italia si era separata dalla Germania alla quale era legata dall’asse italo-tedesco dichiarando il suo allontanamento dalla guerra fino ad allora condotta in comune.
Si è trattato di un periodo sicuramente confuso della vita nazionale giacché mancava qualsiasi precisa direzione dello Stato e delle forze militari. In seguito a questa decisione unilaterale italiana, la Germania dichiarava guerra all’alleato che considerava in qualche misura traditore, anche se non ne esistevano i termini giuridici concreti.
Nel novembre del 1943 Luigi Mascherpa e Inigo Campioni – i due ammiragli italiani preposti che avevano difeso eroicamente per oltre due mesi, insieme alle forze militari inglesi, l’isola di Lero nel Mar Egeo, si arresero con i loro soldati e i loro ufficiali ai tedeschi. Molti di quei soldati e di quegli ufficiali vennero trucidati sull’isola.
I due ammiragli furono arrestati, spediti ad Atene e da lì in un campo di concentramento in Polonia per essere infine consegnati ai repubblichini di Salò per un processo strumentale e sommario con l’accusa di tradimento della patria. I due ammiragli vennero giustiziati nel maggio del 1944.
E’ dunque nei mesi convulsi nei quali di fronte alla scelta fascista e tedesca si organizzava anche la Resistenza antifascista che esce la rivista banfiana; e questo spiega l’impossibilità di reperire la stampa del primo numero nella sua forma originale.
Ricordo ancora per essere stata studentessa del primo anno della Facoltà di Lettere e Filosofia, l’affollarsi di studenti e studentesse in preda alla massima confusione davanti alle aule della sede transitoria di via Passione dell’ex Collegio Reale delle Fanciulle, in attesa di essere successivamente assegnata all’antico Ospedale di Milano in via della Festa del Perdono dove risiede tuttora.
Quella folla di giovani dai diciotto ai vent’anni, non sapeva letteralmente cosa fare tanto è vero che mentre per le ragazze il problema era strettamente personale, questo problema diventava drammatico invece per i giovani invitati ad arruolarsi nelle truppe del regime fascista di Salò.
A coloro che si fossero rifiutati non restava che la strada della clandestinità e il tentativo di raggiungere le forze, anch’esse ancora disgregate, del Comitato di Liberazione Nazionale; esso avrebbe assunto una via più precisa nei mesi immediatamente seguenti, ma intanto la scelta del “che fare” restava strettamente individuale.
Si era al corrente che le forze antifasciste si stavano organizzando; in particolare il Partito Comunista italiano e il Partito d’Azione; sapevamo che avremmo potuto trovare fra di noi alcuni rappresentanti di questi due partiti, ma in mancanza di un’organizzazione clandestina precedente la maggior parte di noi non sapeva letteralmente a chi rivolgersi.
Sono stati dunque mesi molto difficili e insieme decisivi per le scelte di milizia e di vita che comportavano; e non senza una particolare drammaticità sia per le minacce costituite dalle forze fasciste e tedesche organizzate, sia per la presenza tra di esse e in mezzo a noi di alcuni ex combattenti della guerra immediatamente precedente che interrogavano i compagni sul senso che aveva avuto il loro stesso sacrificio. In questo clima uscì dunque il n. 1-2 della rivista “Studi Filosofici” con il breve saggio firmato dallo stesso Banfi: “Moralismo e Moralità”.
Esso ebbe un effetto deflagrante tra noi studenti perché in qualche modo sollevava lo stesso dilemma che ci veniva posto dalla situazione politica. In particolare l’attacco che Banfi rivolgeva al moralismo come pretesa di un richiamo a una validità astratta, in quanto atemporale, di una legge morale valida per sempre.
Questo sembrava rispondere direttamente alla martellante propaganda tedesca e fascista, richiamandosi a quella che poi sarebbe stata definita “Resistenza”, e quindi al carattere egualmente astratto e sostanzialmente infondato del potere di Stato e Nazione che ci voleva al suo fianco.
Nessuno parlò allora pubblicamente ai giovani come questo saggio di sedici brevi pagine che direttamente poneva il problema di quale fosse la scelta morale che eravamo chiamati a fare: pronunciarsi contro il proprio paese augurandosene la sconfitta oppure mettersi dalla parte del regime.
Problema assai impervio; anzitutto perché non è facile scegliere la sconfitta della propria nazione; ma non era ugualmente semplice stare dalla parte di chi ci aveva trascinato in una guerra di cui stavamo conoscendo la ferocia e l’estensione geografica in gran parte dell’Europa.
Per questo leggemmo “Moralismo e Moralità” come una guida per l’immediata decisione che dovevamo prendere; nel mio piccolo accadde lo stesso.
E questo spiega perché questo testo è rimasto impresso nel corso della mia intera esistenza. In pratica non mi restava che provare a stabilire un contatto con il CLN del quale peraltro non sapevo nulla se non che – si diceva – Antonio Banfi ne facesse parte.
Non mi restò dunque che cercarlo anche se era una scelta azzardata; in quell’autunno lo cercai nella sala dei professori.
Lo trovai appoggiato davanti a un radiatore spento e alla sua domanda di cosa desiderassi non potei che buttarmi repentinamente nell’acqua: «Mi dicono che lei aderisce alla lotta antifascista: è vero?» Banfi dovette capire che ero una giovane un po’ stolta ma non una provocatrice per cui decise di rispondermi con sincerità e, al suo «sì», incalzai: «Ho bisogno di capire che cosa devo fare. Forse lei può dirmi che cosa prima di tutto devo leggere».
Egli si spostò verso il tavolo e scrisse un foglietto che ho ancora davanti agli occhi e poi me lo diede dicendomi di leggerlo. C’era scritto: Harold Laski, “La libertà nello Stato moderno” e “Democrazia in crisi” pubblicati ambedue dall’editore di Croce; Karl Marx, “Il Manifesto del Partito Comunista”, “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” e poi “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte” non ricordo da chi editi, Lenin “Stato e rivoluzione” e infine per ultimo: «di S. quello che trovi». S. era evidentemente Stalin; era dunque proprio comunista!
Lo lasciai e nella via di ritorno a casa presso Cantù, dove eravamo sfollati, mi fermai nella biblioteca di Como. Con altrettanta disinvoltura non mi restava che rivolgermi al personaggio che dirigeva la sala di lettura.
Gli lessi il foglietto. Egli non fece una piega e mi disse: «Cerchi alla fine del casellario.» Ed effettivamente trovai nell’ultimo cassetto quasi tutti i volumi che Banfi mi aveva segnalato salvo quelli del fatale S..
Tornai a casa piuttosto stravolta e mi confidai con mia sorella, più giovane e che frequentava ancora il liceo, e assieme precipitammo in una settimana di convulse letture.
Per conto mio cominciai da “Stato e rivoluzione” per non prenderla alla larga. Ricordo ancora adesso il carattere tumultuoso di quella lettura che fu veramente una volta per sempre.
Sarei poi tornata da Banfi dicendogli semplicemente di aver letto i libri che lui mi aveva consigliato e di voler sapere cosa dovevo fare; e lui mi rispose indicandomi il nome di quello che sarebbe stato il mio contatto con il Comitato comasco di Liberazione Nazionale: la professoressa Maffioli. Da allora i miei rapporti durarono per tutta la guerra della quale qualcosa ho raccontato nel volume “La ragazza del secolo scorso”.
Quel numero di “Studi Filosofici” ce lo contendemmo fra molti. Gli studenti di Banfi vi riconoscevano i suoi temi di fondo: il rifiuto di soluzione eterne e atemporali e il richiamo permanente alla concreta realtà del vissuto: «la coscienza del carattere problematico delle idee morali… che ci conduce allo scoprimento della sfera morale. Da Socrate essa è di fatto il fondamento di una continua inchiesta per cui noi e la nostra vita siamo obbligati a confessarci, a chiarirci di fronte alle esigenze ideali; l’immagine di Socrate – non del Socrate filosofo o martire – ma il Socrate uomo e libero cittadino ateniese pronto a ispirarsi a una concreta realtà come è quella della sua vita piuttosto che a teorie morali, siano esse le più nobili e più pure”.
E qui si fa evidente il momento di uno spirito morale veramente costruttivo. La coscienza del carattere problematico delle idee, la critica delle loro soluzioni convenzionali, il rilievo dei presupposti concreti per cui si giustificavano le loro risorse come un terreno da cui può risorgere una vera moralità.
Realismo dunque estremo e deciso. Verso di sé e verso gli altri… che vuol dire al di là di ogni mascheratura retorica, al di là di ogni giudizio convenzionale, al di là degli schemi moralistici che oscurano la realtà a noi stessi e agli altri. Un conoscerci senza infingimenti, un riaffermarci e un reciproco sentirci per quel che sentiamo non secondo una forma moralistica, ma secondo le forze reali che sono in noi e che attendono di essere riconosciute per agire.
Proprio per questi motivi non vi è nulla da guadagnare a celarne le contraddizioni, le asprezze, i problemi, a postulare di questi una soluzione moralistica come si fa spesso per i problemi di vita personale.
E’ piuttosto necessario considerare quei problemi senza attenuazioni, senza riduzioni ideologiche nella realtà del campo dove sono nati e si sviluppano, al di là del senso parziale e ricco di contaminazioni che essi determinano… occorre scendere in fondo in questa loro realtà perché dalla vissuta esperienza chiara e oggettiva si svolga una loro soluzione, non una soluzione moralistica ma la linea di sviluppo morale delle loro soluzioni… nessuna maggiore ingenuità o malafede che il volere imporre a quelle esigenze una soluzione o un metodo di soluzione moralistici. E’ il modo di sformarle e di eluderle, e riesce di fatto ad abbandonarle alla sedentarietà degli averi, fuor di ogni criterio morale e quindi non vero senso di umanità.
E’ necessario piuttosto laddove è possibile viverle così, schiettamente e radicalmente, proprio nel loro campo, che la loro soluzione e il processo per arrivare a quella soluzione facciano sgorgare l’atto della moralità – di una nuova moralità.
Chi non fa questo è la figura hegeliana dell’”anima bella” sempre oggetto di polemica di Banfi. Questo saggio dunque risolveva ogni immagine nobilmente tragica del seguire l’ipotesi vagheggiata da fascisti e tedeschi per fondare una diversa realtà. “La moralità è sempre il partecipare e costruire assieme del libero mondo dell’umanità nella realtà concreta in cui essa vive”.
Sono soltanto sedici pagine il cui senso tuttavia non sfuggì né ai fascisti né ai tedeschi che decisero la chiusura della rivista; essa quindi cessò di uscire come n 1-2 nel 1944 e sarebbe ripresa nel 1946 a guerra finita per arrivare ad una chiusura decisa da Banfi stesso dopo un Comitato Centrale del Partito Comunista che aveva rimproverato una recensione critica di Remo Cantoni a una sbrigativa liquidazione del problema dell’esistenzialismo ad opera di Jean Kanapa.
Insomma Banfi aveva appena cessato di scontrarsi con fascisti e tedeschi per incontrare le rigidità del suo partito, il Pci.
Concludo limitandomi a segnalare oggi quale decisiva importanza abbia avuto per me e per la mia generazione l’uscita di quel saggio Moralismo e Moralità che, con la prefazione di Eugenio Garin, fu poi pubblicato nel dopoguerra a cura del Centro Antonio Banfi del comune di Reggio Emilia insieme al resto delle sue opere più importanti cui egli stesso aveva potuto provvedere prima che la morte lo cogliesse nel 1957 e che ora l’Istituto Luigi Sturzo mi ha cortesemente messo a disposizione.
* Fonte: IL MANIFESTO
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