Il manifesto ha 50 anni. Un gruppo omogeneo d’ispirazione comunista

Il bacino di interesse era offerto dal Pci ormai maturo per una discussione libera, alimentata anche dall’infrangersi della compattezza internazionale dei partiti comunisti

Il manifesto fu pensato come rivista mensile nell’estate del 1968. Il primo numero usci nel giugno del 1969 e aveva 75 pagine, era diretto da Lucio Magri e Rossana Rossanda assieme a Luigi Pintor, Luciana Castellina, Aldo Natoli, Ninetta Zandegiacomi, Valentino Parlato, Massimo Caprara, Filippo Maone; vi collaborarono fra gli altri, oltre a compagni “di base”, Marcello Cini, Vittorio Foa, Pino Ferraris, Lisa Foa, Enzo Collotti, Pierre Carniti, Camillo Daneo, Massimo Salvadori e alcune firme internazionali come J.P. Sartre, K.S.Karol, Jorge Semprun e Fernando Claudin, Paul Sweezy, Noam Chomsky, Michal Kalecki, Ralph Milliband, Daniel Singer, Regis Dabray, Charles Bettelheim, Eldridge Cleaver, Jan Myrdal, André Gorz, Andras Hegedues, Karel Bartosek). Ne uscirono dieci numeri, più o meno dello stesso spessore; l’impaginazione era stata ideata da Giuseppe Trevisani, mentre Luca Trevisani e Michele Melillo lavorarono a coordinare la redazione. L’ultimo numero usci nel dicembre del 1970 e annunciava la sua trasformazione in quotidiano.

La pubblicazione della rivista fu sempre autofinanziata, l’accordo con l’editore prevedeva la vendita diretta da parte della redazione di un modesto numero di copie (nessun editore aveva voluto assumerne l’integralità della spesa). Per l’editore Dedalo di Bari l’impresa fu però tutta in positivo potendo costruire su inimmaginabili profitti la sua futura casa editrice, il primo numero infatti fu ristampato diverse volte raggiungendo circa le 80.000 copie di vendita. Le spese tuttavia erano ridotte al minimo: gli articoli non erano retribuiti e il lavoro tecnico è stato sempre coordinato da una sola persona, Ornella Barra; il servizio spedizioni e abbonamenti era assicurato dagli stessi compagni redattori che chiamavamo i mostri della notte.

Gli scarsi stipendi che venivano dati erano, e rimasero fino alla fine, uguali per tutti. La stampa del Pci (poi Ds e poi ancora Pd) raggiunse a stento la metà del successo de il manifesto.
Il bacino di interesse era fornito dal Pci ed era evidentemente maturo per una discussione libera, alimentata anche dall’infrangersi della compattezza internazionale dei partiti comunisti, il che spiega la difficoltà per il Pci di far fronte alla necessità di separarsi da un’impresa che lo metteva cosi direttamente in causa e che non era facile da liquidare come «anticomunista».

Il primo numero si aprì con un editoriale dal titolo «Un lavoro collettivo» e terminò con un altro editoriale dello stesso titolo «Ancora un lavoro collettivo». L’oggetto dei numeri fu soprattutto le lotte operaie e i problemi del movimento comunista internazionale che aveva al centro la contesa fra il Pcus e il Partito comunista cinese, oltre evidentemente i problemi che l’iniziativa del nostro gruppo apriva all’interno del Partito comunista italiano e che sarebbero culminati nel novembre 1969 con la radiazione del gruppo. La stampa italiana ne seguì con attenzione le vicende, soprattutto da parte di alcuni leader del giornalismo di inchiesta (Paolo Murialdi); molto acerba fu invece la stampa del Pci. La scelta della rivista a favore della rivoluzione culturale cinese allontanò dal manifesto la parte socialdemocratica; e così anche l’ispirazione nettamente comunista di sinistra della nostra organizzazione del lavoro interno (uguaglianza degli stipendi e regime assembleare per tutte le decisioni politiche). Allo stesso modo, il manifesto non incontrò il favore degli 81 Partiti comunisti allora esistenti, neppure di quello cubano; rimasero soltanto molto vivi alcuni rapporti personali con singoli personaggi dei partiti francese, tedesco (Spd) e spagnolo. Il tentativo di un rapporto con il Partito comunista cinese non ebbe seguito.

La gestione fattane da Enrico Berlinguer dimostrò in ogni modo la differenza fra i comunisti italiani e quelli degli altri paesi. Ne venne anche, come già accennato, la difficoltà per il Pci di procedere alle misure disciplinari del nostro gruppo fondatore: in alcune città essa arrivò a interferire con il Congresso del partito, in particolare a Firenze, Bergamo e Napoli. E in ogni modo la differenza di stile tra il Pci e gli altri partiti comunisti giovò nel breve termine al partito di Enrico Berlinguer. L’elaborazione della rivista affrontò soprattutto i temi della lotta in fabbrica, dovuta anche alla scadenza dei rinnovi contrattuali e ai tentativi di innovazione radicali sul terreno dei contenuti dovuti alla stagione dei «consigli di fabbrica» che ebbero un appoggio più del sindacato che del partito e che rappresentavano una delle conseguenze teoriche più importanti seguite al ’68 italiano.

La rivista seguì anche le lotte sulla scuola e quelle sulla casa, oltre alle questioni che dettero più fastidio al Partito comunista dell’Unione sovietica: il problema della primavera cecoslovacca, del grande risveglio sindacale polacco (specie fra i cantieri del Nord, Danzica e Stettino), del quale nulla sembra essere rimasto oggi, e dell’elaborazione cinese prima di Mao Tze Tung e poi della rivoluzione culturale. Ovviamente la rivista il manifesto fu il punto di riferimento per i gruppi dissidenti dell’Est che mantenevano una ispirazione di sinistra e che sarebbero poi convenuti nel Convegno sulle società post rivoluzionarie (Università di Venezia, 1977).
Difficile dire se l’elaborazione del manifesto abbia avuto un’influenza sul Partito comunista: è evidente che la crisi successiva del comunismo sarebbe stata probabilmente limitata se il partito avesse accettato di assumerne l’ispirazione.

Ma non fu così; il gruppo fu accusato di attività frazionistica, anche se aveva fatto molta attenzione a non offrire questo pretesto ai dirigenti. Enrico Berlinguer avrebbe probabilmente preferito evitare dei provvedimenti disciplinari che però il resto del partito gli impose fin dall’uscita del primo numero; in particolare la pubblicazione del secondo numero (indicato come numero 4) avvenne dopo l’estate e dopo il primo Comitato centrale di condanna ancora interlocutoria (relatori Alessandro Natta e Paolo Bufalini). Da allora in poi i rapporti col Partito precipitarono; fu convocata la quinta commissione del Comitato centrale e decisa la linea repressiva, manifestata poi con la radiazione di Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda sancita dal voto del comitato centrale del 27 novembre 1969. Gli altri membri della redazione de manifesto furono radiati nelle settimane successive.

In conclusione, il tentativo del manifesto espresso inizialmente dalla rivista ha rappresentato la principale sperimentazione di un gruppo omogeneo all’interno del movimento comunista internazionale oltre a un tentativo veramente innovatore nella storia delle riviste politiche.

* Fonte: Rossana Rossanda, IL MANIFESTO

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