Il manifesto ha 50 anni, cominciò a uscire nel giugno 1969. Nel maggio del ’68 con Rossana e Magri andammo a Parigi. Del progetto si cominciò a parlare allora. All’epoca, giravamo l’Italia in lungo e in largo. Poi, dopo l’uscita del primo numero, iniziarono le iniziative pubbliche
L’idea covava da molto tempo, fin dagli esiti dell’XI congresso del Pci, che si era svolto nell’ultima settimana del gennaio 1966. Quello in cui fu reso esplicito, con l’intervento di Pietro Ingrao, un punto di vista notevolmente critico della linea politica e della piattaforma programmatica ormai prevalse dopo la morte di Togliatti. Covava, ma senza forma precisa, nei pensieri di pochi compagni che avevano preso parte a quella battaglia, e ne erano usciti sconfitti e poi emarginati. Mi riferisco principalmente a Rossana Rossanda, Lucio Magri, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Valentino Parlato.
Poi, dopo un paio di anni, una volta entrati in quella straordinaria stagione mondiale che fu il ’68, quel lavorìo delle menti cambiò ritmo, fino a sbocciare nella determinazione di fondare una rivista. La prima volta che ne sentii parlare fu nel maggio del ’68, quando con Rossana e Lucio Magri andammo insieme a Parigi, e lì ci fermammo una ventina di giorni per osservare da vicino la novità di quel singolare sommovimento. L’ho ricordato recentemente, e con più dettagli. nella prefazione alla ristampa – edita da manifestolibri – delle Considerazioni sui fatti di maggio, il saggio che Lucio Magri scrisse all’epoca, appena tornammo in Italia. Già prima del Natale dello stesso anno il gruppetto dei promotori – arricchitosi nel frattempo del valore e dell’autorevolezza del compagno Aldo Natoli – si mise d’impegno a lavorare al progetto, in tutte le sue articolazioni. Ma il passaggio dalla semplice ipotesi alla concretezza avvenne alla metà del febbraio ’69, considerati assai deludenti i risultati del XII congresso di Bologna, relativamente ai punti che si chiedeva di mettere in discussione.
In partenza si convenne tutti che la direzione era da affidare a Rossana e a Lucio. Si passò quindi alla ricerca di un editore. Il primo tentativo lo facemmo con Einaudi, che però ci rispose negativamente. Ci rivolgemmo allora a Diego De Donato, l’editore barese che aveva pubblicato da poco sia il già citato libro di Lucio, sia un altro di Rossana, intitolato L’anno degli studenti. Inoltre ci era amico, tanto da averci prestato, a loro due e a me, la Giulia Alfa Romeo con la quale avevamo fatto il viaggio in Francia sopra ricordato. Purtroppo anche De Donato ci disse di no, che non aveva la struttura editoriale, trattandosi non di libri ma di un periodico. Sospettammo che entrambi, più o meno sollecitati dal Pci con cui erano in buoni rapporti, vollero evitare di fargli uno sgarbo. Dovevamo dunque cercare altrove, ma non certo in campi lontani dalla sinistra. Mi venne in aiuto un carissimo amico di Bari, Antonio Mallardi, che a quel tempo era il rappresentante di Einaudi per le librerie di quasi mezza Italia, dall’Abruzzo a tutto il Meridione.
Informato dei rifiuti, Antonio mi consigliò di rivolgermi, anche a nome suo, a Raimondo Coga, un editore-stampatore anch’egli barese (ah, quanti rivoli dell’école barisienne!), che già pubblicava numerosi periodici politico-culturali, tra cui la Monthly Review. Dopo una breve consultazione con il sodalizio, feci tutto alla velocità del fulmine: viaggio a Bari, incontro con Coga, rapida intesa sulle nostre finalità e sulla conseguente totale autonomia circa contenuti e testi. Facile anche la contrattazione economica. La tiratura sarebbe stata sufficiente a distribuire il mensile non soltanto in libreria, ma anche in edicola, con copertura territoriale quasi completa. I costi di produzione tecnica andavano interamente a carico della Dedalo. Direzione e redazione avrebbero provveduto ai loro. Ma l’editore si impegnò a stampare 5000 copie in più da destinare gratuitamente alle nostra organizzazione per la vendita militante e le campagne abbonamenti. Firmato l’accordo, rompemmo gli indugi e partimmo nel mese di giugno 1969. Esattamente cinquant’anni fa.
Con tali ricavi e qualche sottoscrizione di amici simpatizzanti e meno squattrinati di noi (i primi che mi vengono i mente: Paolo Volponi, Ulisse Guzzi, Cesare Musatti, Gian Maria Volonté, Yves Montand e Simone Signoret, ecc., ecc.), riuscivamo a coprire bene i costi redazionali. Alla fine dell’anno, dopo la radiazione dal Pci di novembre, si aggiunsero anche gli utilissimi e soprattutto costanti contributi dei compagni parlamentari, di importo pari a quanto prima davano al partito. Massima oculatezza sulle spese. Di norma si riducevano all’affitto (basso, per fortuna) della sede di piazza del Grillo; ai viaggi e soggiorni a Bari per i due di noi che ci andavano a terminare il lavoro in tipografia e dare il «si stampi» per ogni numero; e alle varie riunioni in giro per l’Italia, per rispondere all’enorme interesse che avevamo suscitato, raccogliere fondi e altre attività promozionali. Quanto agli stipendi, fin dall’inizio legati a quelli degli operai di quinto livello, si limitavano ai tre che ci lavoravamo a tempo pieno: Lucio Magri, io e Ornella Barra, la bravissima segretaria di redazione, che proveniva dalla esperienza simile vissuta a Botteghe Oscure, nella redazione di Critica marxista, diretta allora da Romano Ledda.
Si sarà capito che in quel periodo, in particolare nella prima fase, tutti noi del gruppo iniziale giravamo per l’Italia in lungo e in largo senza fermarci un attimo. Le richieste di incontri e riunioni con piccoli gruppi erano molte e poi, subito dopo l’uscita del primo numero (un successo enorme rispetto alle attese, con vendita tra le 45 e le 50 mila copie!) cominciarono anche le iniziative pubbliche. Per tutta la sinistra, in primo luogo comunista, ma pure ben oltre, furono mesi e mesi di straordinario esercizio democratico, di confronti sulle grandi questioni come su quelle di breve termine, di discussioni appassionate su se stessi, piccole monadi, e sul gigantesco mondo. Mesi vissuti da una parte in allarme, per il timore del pericolo grave che si riteneva stesse correndo l’unità del partito, il bene supremo; e invece dall’altra, la nostra, con la convinzione (esagerata?) di star provando a dare un contributo utile ad arrestare e invertire il processo di corrompimento, in cui correvano il rischio di inabissarsi pratiche e potenza ideale del socialismo (oggi, dopo 50 anni, possiamo ben dire: solo il rischio?). Sarebbe interessante ricostruire da storici quella stagione. Interessante ma anche molto difficile, perché temo che non esistano più luoghi che conservino i relativi materiali, sufficientemente eloquenti.
Per dare almeno un’idea di quel frenetico correre da una regione all’altra, accennerò in conclusione a un infinitesimo numero di riunioni a cui partecipai. Peraltro lo spazio e la minore nettezza dei ricordi non mi consentono di dire degli altri compagni impegnati nel lancio della rivista.
In qualche città ci recammo in due. Per esempio: a Padova, dove andai con Lucio, e insieme a lui ci incontrammo con una decina di compagni, perlopiù docenti universitari e da tempo dissidenti, ma metà già fuori dal partito e metà ancora dentro; e a Perugia, dove Luigi Pintor parlò a una affollatissima assemblea alla Sala dei Notari nel Palazzo dei Priori, con un dibattito protrattosi per ore. In quella occasione avemmo il primo contatto con alcuni compagni di Bologna, che vennero col proposito di dimostrarci che non erano equivoci personaggi, come in precedenti colloqui telefonici loro capirono che noi temevamo, per ragioni (sbagliate, ovviamente) che qui sarebbe troppo lungo spiegare. Erano Stefano Bonilli, Paolo Passarini e Massimo Serafini, che in seguito fondarono e condussero a lungo il Centro di iniziativa del manifesto a Bologna e dopo qualche anno si trasferirono tutt’e tre a Roma, i primi due per lavorare al giornale e il terzo all’organizzazione politica.
A Venezia la riunione ebbe luogo alla Giudecca, in casa di Luigi Nono e di sua moglie Nuria Schönberg, e già questa accoglienza fu per me un onore, oltre che un piacere. Tra i diversi compagni della Federazione locale, che comprendeva una consistente minoranza vicina alle posizioni di Ingrao, c’erano Nico Luciani e Cesco Chinello, un ex operaio di forte intuito politico e altrettanta capacità di leggere nei processi sociali. E c’era anche Massimo Cacciari, venticinquenne, che allora dirigeva con Asor Rosa la rivista Contropiano, intelligentemente operaista. Non sono certo che in quel periodo fosse iscritto al Pci, ma ricordo bene che in quell’occasione fu molto polemico nei miei confronti, non essendo per nulla convinto della battaglia condotta fino a quel punto da chi stava per promuovere il manifesto.
A Milano ci andai per incontrare solo una persona, ma di gran peso. Ci vedemmo all’Università cattolica, dove mi pare che tenesse un corso. Era Lidia Menapace, che negli anni successivi fu una colonna portante prima del movimento politico legato al manifesto e poi del Pdup. Le intenzioni che le esposi devono esserle apparse parecchio interessanti dal suo punto di vista di cattolica del dissenso, se il rapporto con noi si intensificò con una certa rapidità.
A Torino il primo appuntamento lo ebbi con Sergio Garavini, che conoscevo già da tempo. Sergio era a quel tempo segretario della Cgil e membro del Comitato centrale del Pci, perciò preferì non esporsi pubblicamente in favore del nascente manifesto (ma alla riunione finale che decise la radiazione dei suoi esponenti – alla quale non poté essere presente – inviò una lettera per notificare il suo voto contrario). Mi mise comunque in contatto con un nutrito gruppo di sindacalisti della provincia di Novara, in particolare a Borgomanero, che sapeva molto sensibili ai temi che noi intendevamo introdurre e sostenere nel dibattito politico. E infatti la loro disponibilità ad aiutarci si tradusse presto nella raccolta di molti abbonamenti in tutta la provincia, comprensiva anche del Verbanese.
A Pisa mi incontrai con due studenti della Scuola Normale, che mi erano stati indicati come i meno «ortodossi» della Fgci locale. Il cognome di uno dei due mi sorprese, perché del padre Giuseppe, deputato del Pci, che avevo conosciuto quando lavoravo con Rossana Rossanda a Botteghe Oscure, e che mi era sinceramente simpatico, non avevo mai notato segni di simpatia per le posizioni ingraiane e per chi le aveva condivise. Mi aumentò pertanto la curiosità di conoscere Massimo D’Alema, benché non fosse il primo caso al mondo di divergenza di opinioni tra padre e figlio. Ignoravo invece nome e cognome dell’altro studente, che con l’andare del tempo diventò, ed è rimasto, un notissimo personaggio politico. Ma prima ancora di questi sviluppi, già dai mesi immediatamente successivi alla nostra chiacchierata , si era distinto per coraggiosa autonomia. In quanto delegato della Fgci poteva partecipare, con diritto anche di voto, alle riunioni del Comitato centrale del partito dei «grandi», pur non facendone parte. Ebbene, giunti al dunque nella giornata decisiva del novembre ‘69, Fabio Mussi si associò a Garavini, Lombardo Radice e Luporini e dette anche lui voto contrario alla radiazione di Natoli, Pintor, Rossanda e Magri. La conversazione in piazza dei Cavalieri durò poco. Non ci fu bisogno di illustrare le nostre intenzioni. D’Alema e Mussi sapevano già tutto, mostrando di seguire con interesse gli eventi. Ma senza dare evidenza a particolare condivisione. Promisero tuttavia di darsi da fare per raccogliere sottoscrizioni in forma di abbonamenti. Che infatti arrivarono, contribuendo a far vivere il mensile fino a tutto il 1970. Quando decidemmo di trasformarlo in quotidiano.
Trascorso ormai mezzo secolo, un ricordo di quelle vicende appare – come vedete, cari lettori – su un giornale che si chiama il manifesto. Purtroppo non esistono più né il partito, né il suo glorioso quotidiano, l’Unità, che allora lo dichiararono incompatibile. Col risultato che ora stiamo tutti peggio.
* Fonte: IL MANIFESTO
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