«I giorni della rivolta» di Claudio Bolognini, per Agenzia X. Come in un film, il romanzo incrocia i destini di tredici personaggi intorno ai fatti torinesi del 1962
Nell’attuale passaggio storico caratterizzato da un’ondata di reazione e da un’impasse immaginativa, riflettere sulla rivolta del 1962 di piazza Statuto a Torino può insegnarci a leggere il presente, a capire come nascono i movimenti e, in qualche maniera, a «provocarli»? «Sì. L’analisi della trasformazione della composizione sociale e una tessitura politica delle relazioni tra soggettività apparentemente distanti sono elementi che possono aiutarci a far emergere una nuova vitalità dei movimenti di base», risponde Claudio Bolognini, autore di I giorni della rivolta. Quelli di piazza Statuto (Agenzia X, pp. 203, euro 14).
SI TRATTA DI UN ROMANZO che sembra perfetto per diventare la sceneggiatura di un film, ma nello stesso tempo fa riflettere su come nascono i movimenti, sui loro periodi carsici e di formazione, che a volte sfociano in eventi incendiari di rivolta, in rivoluzioni o in strutturate rivendicazioni.
I TREDICI PROTAGONISTI raccontano le tre giornate di rivolta, ognuno dalla propria esperienza e dal proprio punto di vista, ma in qualche passaggio incrociano la medesima scena vista da diversa angolazione e con diversa interpretazione: come in un montaggio cinematografico. I personaggi che agiscono nella città fordista sono giovani operai e operaie che arrivano dal profondo Sud come dal profondo Nord e dalle campagne piemontesi, ma anche una studentessa di medicina, un ragazzo calabrese uscito dal riformatorio che ci fa ripensare a Franti, il ribelle di Cuore, un poliziotto del reparto Celere, un commerciante… e un vecchio medico comunista che tesse le relazioni tra memoria, scontri di piazza e nuovi compagni.
C’è tanta memoria in questo romanzo, detta e non detta: da Edmondo De Amicis, che in piazza Statuto abitava, che con i suoi testi Primo maggio e Lotte civili aleggia dal passato, alle analisi di due libri-chiave per capire quei giorni: L’immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi e Spartakus. Simbologia della rivolta di Furio Jesi. Due intellettuali che, quando scrissero quei testi, vivevano a Torino e avevano negli occhi gli avvenimenti di quei giorni.
«CI SI APPROPRIA di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città», scrive Jesi. Nel romanzo di Bolognini succede di più, un bacio tra due dei protagonisti, Maria Rosaria e Pietro, unisce amore e rivolta e salva i diretti interessati dalla carica della polizia.
NEL 1962 TORINO è una città segnata dal silenzio sociale, la sconfitta della Fiom sancisce la «normalizzazione» politica degli stabilimenti. Valletta, amministratore delegato Fiat, dichiara pacificata la situazione in fabbrica. Per sette anni in città la conflittualità si genera nelle piccole industrie, mentre il «gigante Fiat» è muto, non esprime conflitto. Alla scadenza del contratto nazionale dei metalmeccanici, le prime giornate di sciopero indette dai sindacati vedono gli operai della Fiat rimanere al di fuori dalla mischia. Poi, all’inizio di luglio, la situazione si scalda. Gli scioperi hanno un’imprevista riuscita, un successo inatteso da parte degli stessi organizzatori.
Ma uno dei tre sindacati confederali, la Uil, sigla un accordo separato e si sottrae alla lotta, un gruppo consistente di lavoratori reagisce alla situazione, marcia sul centro, si reca in piazza Statuto, dove c’era la sede del sindacato colpevole d’avere rotto il fronte operaio e la cinge d’assedio. Interviene la polizia, si accendono degli scontri sempre più violenti e sempre più estesi. Per tre giorni. È in questo contesto che si svolge il romanzo, una situazione che prefigura il ventennio successivo, con il ’68, il ’77 e il passaggio dall’operaio-massa all’operaio-sociale, dalla produzione fordista a quella postfordista.
IMPOSSIBILE NON PENSARE a Vogliamo tutto, il romanzo di Nanni Balestrini, che pur ambientato nel 1969 e costruito con struttura narrativa e lavoro linguistico totalmente differenti, vuole arrivare – come I giorni della rivolta – alla medesima mitopoiesi della ribellione, esistenziale e collettiva, e di una trasmissione della memoria delle lotte. Quello che ci serve oggi per ricostruire una soggettività molteplice e agente.
* Fonte: Marc TibaldiIL MANIFESTO
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