C’è una storia che va da piazza Statuto a piazza Fontana: una storia di lotte che proseguirà nel decennio successivo, e che in parte confluirà in quella armata
SCAFFALE. «Potere operaio», un primo volume di Marco Scavino per DeriveApprodi
Affidato alla competenza di Marco Scavino – sia come storico, sia come militante di PotOp –, Potere operaio. La storia. La teoria (volume I, pp. 188, euro 18) è un ulteriore tassello nella costruzione di un archivio sui movimenti degli anni 60 e 70 che DeriveApprodi porta avanti da anni. Impresa editoriale della quale fa parte anche Prima linea. L’altra lotta armata di Andrea Tanturli (cfr. qui), che di Scavino condivide il metodo di lavoro.
AMBEDUE I VOLUMI hanno un prolungamento nel web, con due pagine facebook dedicate attraverso le quali è possibile leggere una ricca mole di documenti che sono in corso di pubblicazione in progress: una modalità innovativa rispetto a opere precedenti, come la ripubblicazione delle riviste Rosso e Primo maggio, che rendevano disponibili le pagine dei giornali mediante un cd allegato. A questo primo volume, che arriva fino al 1971, faranno seguito un secondo volume, e nuova edizione di La nefasta utopia di Potere operaio di Franco Berardi Bifo.
La composizione di quest’opera, al di là della mera ricostruzione degli eventi e della pubblicazione dei documenti, ha una sua ragion d’essere che coincide con le scelte interpretative di Scavino. Il quale, partendo dalla constatazione che PotOp fu «un gruppo fortemente minoritario, il cui ruolo all’interno del movimento e delle lotte non era certamente proporzionato alla forza numerica o d’organizzazione», spiega lo scopo principale di questo libro consistere nel «cercare di comprendere le ragioni di questo fenomeno, provando a considerarlo nel quadro più generale delle vicende dello scontro di classe tra la fine degli anni 60 e l’inizio del decennio seguente». Si tratta, insomma, di cogliere lo spessore qualitativo di PotOp, all’interno del contesto di lotte che ne resero possibile l’esistenza.
CONTESTO CHE SI PRESENTA come un groviglio di storie, realtà, entrate e uscite: groviglio del quale è possibile dipanare i singoli fini, a condizione di non dimenticare mai la loro comune matassa. Se infatti Potere Operaio (inteso come giornale) nasce nel settembre 1969, è altrettanto vero che la sua genesi rimonta lungo una genealogia che parte dai Quaderni rossi per svilupparsi attraverso classe operaia e La classe (passando per Contropiano, o quantomeno per il suo primo numero). Fra rivista e rivista c’è una storia che va da piazza Statuto a piazza Fontana: una storia di lotte che proseguirà nel decennio successivo, e che in parte confluirà in quella armata. Scavino rende un quadro complesso. Rifiuta le ricostruzioni lineari – per esempio quelle di Angelo Ventura – dai Quaderni rossi fino alle Br senza soluzione di continuità, che hanno sotteso il teorema Calogero: sconfessate dalle sentenze, si sono nondimeno imposte nell’immaginario nazionale. Accanto a questo mito, ve n’è un secondo, che viene sottoposto a critica con la ricostruzione analitica: quella di PotOp e dell’operaismo sarebbe la storia di poche menti, magari geniali ma avulse dalle lotte, che avrebbero prodotto una teoria aliena dalla materialità dei fatti, e la cui composizione finisce per essere ricondotta a quei militanti che vengono oggi ricordati e stigmatizzati perché oggetto di procedimento giudiziaria.
Una malevola metonimia, che finisce col generane un’altra un’intermittenza della memoria: che, se non quella di PotOp, senz’altro la storia dell’operaismo possa essere ricondotta alle sue origini, e coincidere con una sostanziale univocità attorno a quello che ne incarnerebbe la dimensione teorica, vale a dire Mario Tronti.
È INVECE VERO (come Scavino scrive a proposito di Classe operaia) che «la condivisione di «un modo di pensare politico» non aveva affatto implicato un’omogeneità di orientamenti politici e di pratiche d’organizzazione», com’è attestato dagli esiti divergenti di quell’esperienza: la prosecuzione di un percorso che porterà alla nascita di PotOp per alcuni, o il ritorno alla casa del padre per altri, fra i quali lo stesso Tronti, che, un po’ come il musico suo cugino, avrebbe poi fatto fruttare la rendita pluridecennale di alcuni fortunati testi iniziali (con l’estatica ammirazione di acritici sorcini disposti a perdonare una maturità mal spesa – ma questa è un’altra storia). Fatto è che PotOp «non si limitò a «ereditare» dai Quaderni rossi e da Classe operaia un certo tipo di cultura politica, ma la usò e la rielaborò in funzione di quanto andava emergendo dalle lotte e dai movimenti di classe». I frutti di questa rielaborazione sono il tema della «composizione» della classe operaia, e il termine «operaio massa» per indicare i settori non qualificati, mobili, intercambiabili della forza-lavoro.
Lo stesso rapporto fra l’operaismo e PotOp è «un rapporto complesso, fatto indubbiamente di continuità ma anche di contributi originali e innovativi, che influenzarono in maniera rilevantissima il dibattito coevo del movimento operaio», del quale Scavino intende fornire elementi per una «storia politica dell’operaismo italiano» che «in parte deve ancora essere ricostruita». È questa una delle tre questioni che l’autore mette al centro della propria opera. Per le altre due – il discorso sulla rivoluzione dopo il ’68, e il ruolo di PotOp nella genesi della lotta armata – bisognerà attendere il secondo volume.
* Fonte: Girolamo De Michele, IL MANIFESTO
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