Il programma comunista della svolta chiedeva che nei collettivi nascessero organismi di democrazia diretta per la gestione del lavoro e della produzione. Ne nacquero 120, anche nelle mega-fabbriche e furono attivi fino alla fine del 1969, quando furono aboliti perché ponevano il «nodo del potere»
Tra i temi meno trattati nelle rievocazioni e nei commenti per il trentesimo anniversario (*) del ’68 cecoslovacco vi è quello dell’autogestione operaia. Eppure nell’ampio movimento politico avviato il 5 gennaio di quell’anno assume notevole importanza il risveglio di attività dei lavoratori nel loro complesso, delle categorie che nella prima fase avevano mostrato un atteggiamento piuttosto riservato verso i mutamenti nella direzione del partito e dello stato.
L’attendismo era dovuto tra l’altro all’azione delle forze conservatrici, le quali per frenare le riforme disegnavano scenari catastrofici, soprattutto di chiusura di imprese e di pericolo della disoccupazione.
QUELL’ATTEGGIAMENTO divenne gradualmente appoggio sincero alle riforme, quando gli operai si resero conto che finalmente potevano avere il diritto di affermare i propri interessi, prima non difesi dai sindacati trasformati in «cinghie di trasmissione», che potevano diventare i veri padroni dei mezzi di produzione, proprio come voleva la teoria di Marx.
Nel dialogo con il nuovo governo i sindacati presero a sostenere le rivendicazioni sollevate dai lavoratori, quali l’aumento dei salari, migliori condizioni di lavoro e della rete di attrezzature sociali, riduzione e redistribuzione dell’orario di lavoro.
A dispetto delle preoccupazioni che l’autonomia sindacale e l’idea dei consigli aziendali avrebbero comportato un peso insostenibile per il bilancio statale e per l’economia, e che potessero significare solamente soddisfazione degli interessi parziali di alcune categorie, i lavoratori dimostrarono prudenza e coscienza che le loro rivendicazioni avrebbero potuto essere accolte con gradualità e che nell’interesse dello sviluppo generale avrebbero comportato anche sacrifici.
In breve, operai e lavoratori in genere si rivelarono gestori responsabili, sapendo di lavorare per se stessi e per la società tutta.
Sotto la direzione di Dubcek il partito sosteneva la tendenza all’autogestione sebbene nelle sue file non mancassero tecnocrati e conservatori che vi opponevano.
NEL PROGRAMMA d’azione del Partito comunista di Cecoslovacchia, approvato e pubblicato nell’aprile 1968, si legge: «La riforma economica dovrà sempre di più tendere a mettere i collettivi di lavoro delle imprese socialiste nella condizione di avvertire direttamente gli effetti della gestione, buona o cattiva, delle aziende. Per questo il partito considera indispensabile che ogni collettivo di lavoro abbia influenza sulla gestione, della quale sopporta le conseguenze.
Ne deriva la necessità di organismi democratici nelle imprese con precisi poteri sulle direzioni aziendali. Direttori e dirigenti, scelti da tali organismi, dovrebbero rispondere agli stessi dei risultati complessivi della propria attività (…).
Questi organismi dovrebbero essere formati da rappresentanti eletti dai collettivi di lavoro e da rappresentanze extra-aziendali per garantire gli interessi più generali e un livello decisionale specialistico e qualificato (…). Bisognerà progettare lo statuto di tali organismi, utilizzando alcune tradizioni dei nostri consigli aziendali anni 1945-48 e le esperienze dell’imprenditoria moderna».
Non meraviglia il fatto che i primi difensori dell’idea dell’autogestione e gli autori di proposte concrete siano stati tecnici, giornalisti, intellettuali progressisti, che articoli e risoluzioni per dare vita ai consigli operai abbiano trovato spazio nel settimanale degli scrittori Literarni listy («I fogli letterari»). Nel giugno 1968 i consigli furono costituiti in due grandi imprese dell’industria pesante: la Ckd di Praga e la Skoda di Plzen e, paradossalmente, proprio l’aggressione del 21 agosto, perpetrata per soffocare la riforma e isuoi momenti socialisti, provocò una rapida diffusione dell’idea dell’autogestione, la crescita impetuosa del numero dei consigli. In ciò i lavoratori vedevano la forma migliore e più efficace di opposizione all’occupazione e contro il ritorno al al sistema staliniano.
Nell’ottobre risultavano costituiti 170 consigli aziendali in imprese con un totale di 600mila dipendenti. Nel mese successivo vi fu lo sciopero degli studenti dell’università Carlo di Praga, cui si unirono gli operai di molte fabbriche, contro le pressioni dei conservatori e le concessioni agli occupanti sovietici. Il 19 dicembre l’Unione degli studenti universitari stipulò un accordo con l’Unione dei metalmeccanici (900mila iscritti), con il quale si esprimeva sostegno ai consigli operai e se ne chiedeva l’istituzione in tutte le imprese del paese.
NEL TRAGICO gennaio 1969, mentre s’intensificava la pressione degli occupanti e dei conservatori dentro il Partito comunista cecoslovacco (Pcc) e l’opinione pubblica era scossa dall’autodafé dello studente Jan Palach, il quale con il suo gesto estremo di darsi fuoco aveva voluto protestare contro l’occupazione e la passività governativa, a Plzen si tenne la prima e ultima riunione dei delegati dei consigli operai (121 già funzionanti e 70 comitati preparatori, rappresentanti un totale di 800mila lavoratori).
In alcune imprese i direttori erano stati eletti dai nuovi organismi, in altri erano stati scelti per concorso. Tra gli oratori di quell’incontro ritroviamo l’ingegnere Rudolf Slansky – figlio del segretario generale comunista impiccato nel 1952 al termine di un processo- farsa – che era stato tra gli iniziatori del movimento dei consigli, il quale difese le competenze degli stessi contro i tentativi del governo e dei tecnocrati di limitarli e di trasformarli in semplici organi consultivi della direzione dell’impresa, senza poteri di nomina dei direttori e di controllo sulla gestione. Altri consigli si costituirono in seguito, tanto che nella primavera 1969 esistevano in 500 aziende con un totale di 1.200.000 dipendenti.
Insieme ai sindacati i nuovi organismi rappresentavano una forza considerevole schierata a difesa della politica avviata nel gennaio 1968 e di opposizione ai conservatori in crescita sotto l’ala degli occupanti. In questa fase della battaglia per i diritti dei consigli operai, tornò a formarsi un fronte comune tra lavoratori e intellettuali. Non a caso, per esempio, il 20 febbraio 1969, il settimanale degli scrittori cechi uscì con un articolo di apertura del teorico dell’arte Vaclav Chalupecky intitolato a piena pagina: Tutto il potere ai consigli operai.
Fu necessaria la sollevazione di Alexander Dubcek, grazie alla minaccia agitata dai marescialli sovietici di un nuovo intervento militare e il contributo del presidente Svoboda al putsc in seno al Pcc nell’aprile 1969, per avviare la liquidazione di quell’originale iniziativa operaia.Nel primo discorso pronunciato appena eletto il normalizzatore Gustav Husak attaccò duramente i sindacati, accusati di «volersi emancipare dal ruolo guida del partito». E non difettò il sollecito aiuto della stampa sovietica, che definì il movimento dei consigli «anarcosindacalismo».
Più sincero il premier Oldrich Cernik, il quale tradendo Dubcek per conservare l’incarico sotto la nuova direzione, affermò davanti ai lavoratori della Ckd Praga che l’idea dei consigli andava rifiutata, perché «riaprirebbe la questione del potere» e lasciò intendere che il partito comunista «epurato» non intendeva dividere il suo potere con gli operai. Nell’ottobre di quell’anno fu Husak a respingere definitivamente l’idea dell’autogestione in un discorso alla Skoda di Plzen, dove i dipendenti continuavano con ostinazione a difendere il proprio consiglio e annunciò il loro scioglimento.
LA PAROLA fine venne così apposta a uno dei più bei tentativi della storia operaia cecoslovacca e della «Primavera». La breve riflessione sul destino di un’esperienza di autogestione operaia, nata nel ’68 cecoslovacco, dovrebbe suonare come un rimprovero per la sinistra europea (e italiana) (…)
*Tratto dall’Archivio de il manifesto «Praga 68-98» del 21 agosto 1998
**Jiri Pelikan è nato il 7 febbraio 1923 a Olomouc, in Moravia dove partecipò alla resistenza contro il nazismo e diventò comunista. Segretario dell’Unione internazionale degli studenti, fu in odore di «titoismo» negli anni ’50. Presidente della Commissione esteri del parlamento cecoslovacco, nel ’68 fu nominato direttore generale della televisione. Inviso ai sovietici, per proteggerlo Dubcek lo inviò a Roma come addetto culturale. Qui restò in esilio, espulso dal partito e privato della cittadinanza, e fondò la rivista dell’opposizione socialista cecoslovacca «Listy». Fu deputato europeo eletto nelle liste del Psi. E’ morto a Roma il 26 giugno 1999.
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** Fonte: IL MANIFESTO
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