Giustizia. Il pg della Corte d’Assise d’Appello di Milano confuta la sentenza di primo grado. Morte provocata dalla «violenta manomissione» nel «trasferimento coatto in caserma»
C’è un procuratore, a Milano. Che per la prima volta vede ciò che finora sembrava invisibile. Ed è l’unica consolazione per la famiglia di Giuseppe Uva, il gruista 43enne morto il 14 giugno 2008 dopo essere stato trattenuto per una notte all’interno della caserma di via Saffi a Varese, che chiede da dieci anni verità e giustizia.
«Anche a prescindere dalle eventuali percosse subite e dalle lesioni riscontrate sul suo corpo», Giuseppe Uva è morto «a causa di un’aritmia provocata dalla violenta manomissione sulla sua persona col trasferimento coatto in caserma». È quanto ha sostenuto ieri durante la requisitoria, davanti alla Corte d’Assise d’Appello, il pg di Milano Massimo Gaballo che, in opposizione alla sentenza di primo grado che ha assolto tutti gli imputati, ha chiesto di condannare a 13 anni di reclusione i due carabinieri, e a 10 anni e 6 mesi i sei agenti di polizia accusati di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato.
A prescindere dalla loro colpevolezza – il processo riprenderà il prossimo 23 maggio e la sentenza è prevista per fine mese – è comunque la prima volta che la magistratura inquirente non assume su questo caso solo il punto di vista di polizia e carabinieri. A cominciare dall’illegittimità di quel trasferimento in caserma per identificare due persone già note alle forze dell’ordine cittadine: la vittima e il suo amico Alberto Bigioggero che quella notte, ubriachi, stavano trascinando alcune transenne al centro di una strada.
Diverso il giudizio anche sulla testimonianza di Bigioggero, cui la Corte d’Assise di Varese non ha dato alcuna credibilità. L’uomo, che ha problemi psichiatrici, aveva riferito le parole che sarebbero state pronunciate da uno dei due carabinieri nel momento in cui, scendendo dall’auto di servizio, riconobbe Giuseppe Uva: «Proprio te stavamo cercando, questa non te la faccio passare». Parole che secondo il pg Gaballo erano dettate dalla «presunta storia di Uva con la moglie di un carabiniere». «Lui si vantava di questa relazione – ricostruisce il sostituto procuratore – Una vanteria che era più che sufficiente per una punizione, per persone che non si fanno nessuno scrupolo a piegare i propri poteri istituzionali a interessi personali». E invece di ascoltare il testimone, secondo il Pg, i pm interrogarono Biggioggero «con modalità barbare», «in violazione del codice penale e del rispetto della libertà di auto-determinazione».
Ma soprattutto, il procuratore generale di Milano cerca una spiegazione a quella serie di ferite riscontrate sul corpo di Uva sulle quali la sentenza di primo grado sorvolava: «Ematomi che non possono essere il frutto di autolesionismo, così come affermato dagli imputati nel tentativo di giustificarsi». («Il collega frapponeva il suo stivale tra il pavimento e la testa di Uva, per evitare che questi si facesse più male urtando contro la superficie dura del pavimento», riferivano i militari per giustificare il Trattamento sanitario obbligatorio con il quale venne ricoverato quella notte Giuseppe Uva, poco prima di morire).
Una vicenda, questa, che ha alcune similitudini con la morte di Aldo Bianzino, avvenuta il 14 ottobre 2007 nel carcere di Perugia Capanne e in relazione alla quale è stato condannato in via definitiva, per omissione di soccorso, un poliziotto penitenziario. Secondo la ricostruzione processuale, la morte del falegname arrestato per qualche piantina di marijuana sarebbe stata causata da un aneurisma. Questa mattina però, nella sala Nassirya del Senato, il figlio Rudra, l’associazione A buon diritto e i senatori Zanda e Manconi presenteranno la nuova perizia medico legale autorizzata dal Gip che potrebbe riaprire il caso.
FONTE: Eleonora Martini, IL MANIFESTO
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