Oggi in prigione con l’accusa (a vario titolo) di eversione nazionale ne sono rimasti 54, 43 uomini e 11 donne
Li hanno chiamati «Anni di piombo» per via delle pallottole che fra il 1969 e il 1988 hanno ucciso 197 vittime di agguati terroristici e 38 caduti negli scontri catalogati come episodi di «violenza politica», intervallati dalle bombe che hanno dilaniato 135 persone. In tutto 370 morti, ai quali l’Associazione italiana vittime del terrorismo aggiunge circa mille feriti. È la macabra contabilità di un ventennio che ben presto è diventato (oltre che di piombo e di tritolo) anche «di ferro», per via delle sbarre e delle celle blindate dove sono stati rinchiusi migliaia di detenuti accusati di quei delitti, e poi di associazione sovversiva, bande armate rosse e nere, detenzioni di armi e favoreggiamenti vari.
Un esercito di almeno quattromila inquisiti per i gruppi di estrema sinistra — le Brigate Rosse fondate nel 1970 da Renato Curcio, Mara Cagol e altri; Prima linea nata nel ’76, e decine di sigle accumulatesi negli anni — a cui vanno sommati quelli della galassia autonoma e senza nome, anarchici e cani sciolti. Oltre agli arrestati per appartenenza alle organizzazioni neofasciste, gli stragisti e quelli dello «spontaneismo armato»: prima Ordine Nuovo, Ordine Nero e Avanguardia Nazionale, poi i Nuclei armati rivoluzionari di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro e gruppi affini. C’è chi ha calcolato che in totale sono circa seimila le persone transitate dalle patrie galere nella lunga stagione del terrorismo nostrano.
Chi resta in carcere
Oggi in prigione con l’accusa (a vario titolo) di eversione nazionale ne sono rimasti 54, 43 uomini e 11 donne. Meno dell’uno per cento. Segno inequivocabile di una stagione non solo finita, ma che ha sostanzialmente chiuso i conti con la giustizia.
Tra gli uomini ancora dietro le sbarre, sottratti dodici anarchici e sette di estrema destra, restano 24 detenuti, compresi tre che hanno dato vita alle «nuove Brigate Rosse» che tra il 1999 e il 2003 uccisero Massimo D’Antona, Marco Biagi e il poliziotto Emanuele Petri: un’altra storia. Tra le donne ci sono Nadia Desdemona Lioce, uno dei capi delle «nuove Br» chiusa al «41 bis», quattro militanti anarchiche e una brigatista della vecchia guardia, Rita Algranati, arrestata nel 2004 quando già aveva abbandonato da tempo l’organizzazione.
I maschi «reduci degli anni di piombo» sono ventuno, di cui alcuni ammessi al lavoro esterno o alla semilibertà; fra loro Mario Moretti, il capo brigatista che guidò l’operazione Moro, concluso con l’omicidio dell’ostaggio esattamente quarant’anni fa, il 9 maggio 1978.
Gli irriducibili
Rinchiusa a tempo pieno, e in regime di «alta sicurezza», c’è una pattuglia di 16 irriducibili della vecchia guardia, 11 uomini e 5 donne arrestati fra il 1982 e il 1989, che dopo oltre trent’anni di galera effettiva non hanno mai messo il naso fuori nemmeno per un giorno. Se volessero potrebbero farlo, ma non ne fanno richiesta per non interloquire con lo Stato che hanno combattuto e di cui si considerano tuttora «prigionieri politici».
Il più anziano (ma non all’anagrafe) è Cesare Di Lenardo, cinquantanovenne arrestato il 28 gennaio 1982 in concomitanza con la liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, rapito dalle Br quaranta giorni prima. Un altro paio sono stati presi nel 1983, ma la gran parte è caduta nella trappola dei carabinieri tra l’88 e l’89. Antonino Fosso, latitante dal 1981, fu arrestato trent’anni fa; Fabio Ravalli, sua moglie Maria Cappello e altri detenuti di oggi vennero catturati in un blitz del settembre ‘88, ma prima ebbero il tempo di uccidere il senatore dc Roberto Ruffilli, il 16 aprile dello stesso anno: l’ultimo delitto delle Brigate Rosse nella Prima Repubblica. Tra le donne spicca il nome di Susanna Berardi, arrestata nei primi giorni dell’82, due settimane prima di Di Lenardo: il primato della detenzione più lunga è suo.
Le vittime e gli arresti
Prima di rimanere gli epigoni volontari di una guerra allo Stato dichiarata unilateralmente e persa da molto tempo, hanno fatto parte di una realtà molto più massiccia (sebbene non di massa, come avrebbero voluto). Nel 1994 il «padre fondatore» delle Br nonché sociologo Renato Curcio, libero dopo vent’anni di prigione, realizzò con il «Progetto memoria» una radiografia utile ancora oggi per interpretare il fenomeno del terrorismo rosso.
Stando alle cifre di quella ricerca, l’organizzazione che ha avuto il maggior numero di inquisiti furono le Brigate Rosse nelle diverse articolazioni in cui si sono divise dai primi anni Ottanta: 1.337 inquisiti, distribuiti fra cinque sigle. Al secondo posto c’è Prima Linea, con 923 inquisiti. Seguono altre 18 organizzazioni «maggiori», e 23 bande armate cosiddette «minori».
Questi gruppi hanno firmato, tra il 1971 e il 1998, 128 omicidi (127 uomini e una donna: la vigilatrice del carcere romano di Rebibbia Germana Stefanini, assassinata il 28 gennaio 1983). La maggior parte, 73, sono stati rivendicate dalle Br variamente denominate, Prima Linea ne ha compiuti 20. Nella divisione delle vittime per categoria primeggiano i poliziotti (38), seguiti da 21 carabinieri e 10 appartenenti a corpi di polizia privata, 8 agenti penitenziari e un vigile urbano. Tra i «civili» figurano 8 magistrati, 6 politici, 6 dirigenti d’azienda, due giornalisti (Walter Tobagi del Corriere e Carlo Casalegno della Stampa). L’anno con più omicidi è stato il 1978 (28), seguito dal 1980 (24), il 1979 (21) fino ai 13 per anno consumati nel 1981 e 1982.
L’anno record per la riscossa di inquirenti e investigatori è stato il 1980: 1.021 arresti, dovuti soprattutto ai «pentimenti» dei primi collaboratori di giustizia: Patrizio Peci nelle Br e Roberto Sandalo in Prima Linea.
Nel 1982, quando a gennaio si pentì il brigatista romano Antonio Savasta, ci fu un’ondata di 965 arresti. Nel 1981 erano stati 433; 305 nel 1983.
La maggior parte dei condannati all’ergastolo erano studenti e giovani operai. La legge italiana, dopo 26 anni di buona condotta, consente di tornare in libertà. Per questo molti di loro, da adulti, in società sono tornati.
FONTE: Giovanni Bianconi e Milena Gabanelli, CORRIERE DELLA SERA
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