Libertà d’espressione. La condanna al rapper Valtònyc a tre anni e mezzo di carcere per i testi delle sue canzoni e il ritiro dell’opera «Prigionieri politici» dalla fiera d’arte Arco fanno discutere
BARCELLONA. Abusare di una persona disabile. Uccidere una prostituta. Frodare 82 famiglie. Sequestrare un uomo. Pugnalare l’ex moglie. Provocare un grande incendio. Guidare ubriaco e uccidere un motociclista. Sparare e ferire un uomo. Aggredire un’anziana e quasi ucciderla per un furto. Rubare 31 volte. I responsabili di tutti questi delitti, e di molti altri, come ha spiegato in un lungo e lettissimo thread di Twitter il giornalista Marcos Ollés, sono stati condannati recentemente a esattamente tre anni e mezzo di carcere.
La stessa pena inflitta questa settimana al rapero maiorchino Valtònyc per apologia di terrorismo, calunnie, ingiurie alla corona e minacce. In sostanza, per aver scritto delle canzoni contro il sistema, in cui alcune delle parole contro i Borbone e contro un’associazione di estrema destra delle Baleari (che ha promosso la denuncia) sono state considerate un grave delitto. Magari discutibili o violente, ma pur sempre solo parole.
MA NON BASTA. A meno di 24 ore dalla condanna del giovane 25enne (18enne all’epoca della denuncia) altri due fatti hanno messo in evidenza che la libertà di espressione in Spagna è obiettivamente in pericolo. Il primo, il ritiro di un’opera del controverso artista Santiago Serra esposta alla Fiera d’arte contemporanea di Madrid «Arco 2018». L’opera, volutamente polemica, era intitolata Prigionieri politici nella Spagna contemporanea, e consisteva di 24 ritratti in bianco e nero di persone con il volto pixelato, che, pur senza nome, sono facilmente identificabili per le esplicite didascalie. Fra loro, l’ex vicepresidente catalano Oriol Junqueras, e i due presidenti delle associazioni indipendentiste Òmnium cultural e Anc, Jordi Cuixart e Jordi Sánchez (tutti e tre attualmente in carcere). Ma anche i marionettisti finiti in gattabuia per un mese per aver esposto un cartello ironico nella loro opera La bruja y don Cristobál, il capo del sindacato andaluso Sat e membro di Podemos, condannato per aver aggredito un vice sindaco di Jaén con una sentenza basata solo su testimonianze di polizia, attivisti vari, membri del defunto foglio della sinistra abertzale basca (filo-Eta), anarchici, okupas o ecologisti. L’idea dell’artista (che nel 2010 rinunciò a un premio del ministero della cultura per preservare la propria libertà) era «dimostrare che i prigionieri politici spagnoli contemporanei abbracciano un ampio spettro di posizioni politiche soprattutto di sinistra». Ma titolo, tema e contenuto dell’opera (soprattutto i ritratti dei politici catalani) erano tanto controversi – e scomodi per la coppia reale che doveva inaugurare la fiera – che i proprietari della galleria l’hanno fatta ritirare, scatenando la polemica (e dando così la massima visibilità all’opera). Lo stesso giorno del criticatissimo ritiro, l’ha comprata un produttore audiovisivo per 80mila euro che ha già detto che la farà esporre in un museo a Lleida. Anche il comune di Barcellona si è detto pronto a ospitare l’opera. La sindaca di Madrid, Manuela Carmena, non è andata all’inaugurazione per protesta contro il ritiro.
LA TERZA VITTIMA della censura della magistratura, invece, non ha niente a che vedere con la corona: un ex sindaco galiziano ha fatto ritirare da un giudice la seconda edizione di un libro, Fariña, di cui aveva querelato l’autore, dedicato al narcotraffico nel nordovest della penisola perché si sentiva diffamato da quanto scritto. La cosa è paradossale: non solo per l’assurdità di ritirare un libro a tre anni dalla pubblicazione (ovviamente, Fariña ha subito avuto un boom di vendite su amazon), ma anche perché è venuta fuori una nota scritta due anni fa da Mariano Rajoy in persona (anche lui galiziano) in cui faceva i complimenti all’autore perché il libro era «molto ben documentato». Al presidente del governo il libro l’aveva fatto avere Pablo Iglesias.
LA COINCIDENZA in poche ore di questi episodi giudiziari ha rimesso al centro della discussione il problema della libertà di espressione. Mentre la corrente conservatrice della magistratura – maggioritaria in Spagna – non ravvede elementi di preoccupazione neppure nella condanna di un musicista per le sue canzoni, i giudici progressisti criticano il reato di «apologia di terrorismo» come «eccessivamente restrittivo» e dicono che «dovrebbe essere riformato perché non sia così ad ampio spettro, atto a dare luogo a interpretazioni tanto contraddittorie». Fu proprio il Partido popular a indurire queste pene ai tempi della maggioranza assoluta (2015) con l’ultima controversa riforma del codice penale.
Anche il mondo politico ha iniziato a reagire. Il ministro di giustizia, il pasdaran Rafael Català, ha sostenuto che non esistono prigionieri politici, che bisogna distinguere fra libertà di espressione e ingiurie, e che le parole di Valtònyc «superano il limite della libertà di espressione». Il Psoe ha applaudito il ritiro dell’opera di Santiago Serra, «per evitare polemiche». Izquierda Unida ha reagito frontalmente, presentando, per bocca del suo segretario Alberto Garzón, un’iniziativa legislativa per «proteggere la libertà di espressione», centrata sulla modifica dell’articolo penale che permette l’attribuzione del reato di «apologia del terrorismo» in maniera arbitraria a seconda del giudice. Gli altri articoli del codice penale che Iu vuole cambiare o abolire sono quelli relativi alle ingiurie alla religione o alla corona, responsabili di molte delle recenti condanne, o alla patria e alle istituzioni. Tutti delitti che secondo Garzón «non dovrebbero formar parte di una società democratica». E ha ricordato che il primo grande passo contro la libertà di manifestazione l’aveva fatto la cosiddetta «legge bavaglio» del 2015, promossa dal governo Rajoy, che limitava il diritto a manifestare negli anni più duri della crisi.
Se non solo i giornali stranieri, ma anche Amnesty International è arrivata a qualificare come «sproporzionato» l’arresto dei politici catalani, forse sarebbe il caso che la magistratura e il governo spagnoli cominciassero a farsi qualche domanda. Più che sull’improbabile secessione catalana, sulla qualità democratica del paese.
FONTE: Luca Tancredi Barone, IL MANIFESTO
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