Il procuratore Calogero ha querelato Umberto Contarello per dei commenti espressi sul processo all’Autonomia Operaia nel 1979
POLEMICHE. Lo sceneggiatore ha poi fatto marcia indietro parlando di «scherzi della memoria»
PADOVA. Padova è sempre «impiombata» dal 7 aprile. Anche dopo quasi 40 anni scatta il riflesso pavloviano. E si riapre il campo di battaglia sul teorema di Pietro Calogero (sposato dal Pci) e sulla «supplenza giudiziaria» (contestata dai garantisti dell’epoca) nei confronti dell’Autonomia e dei «cattivi maestri» di Scienze Politiche.
Mercoledì sera al Centro universitario di via Zabarella si discuteva, senza tanti problemi e con una completa gamma di opinioni, la tesi di laurea di Giulia Princivalli (che è nata nel 1993) Padova di piombo. Lo scontro fra Pci e Autonomia Operaia negli anni ’70 (Alba Edizioni, pagine 102, euro 10). È il medesimo sforzo di libera riflessione che nel 2002 aveva prodotto Luca Barbieri con I giornali a processo: il caso 7 aprile al termine del corso in Scienze della comunicazione. Ma paradossalmente non fa notizia.
È squillato l’allarme rosso per combattenti e reduci. Calogero ha querelato Umberto Contarello, in gioventù segretario cittadino della Fgci, per la sua testimonianza nel web che faceva passeggiare il pm dentro le stanze della Federazione di via Beato Pellegrino.
Nello stesso modo social lo sceneggiatore da Oscar si è rimangiato lo «scherzo della memoria», ottenendo una raffica di insulti da Flavio Zanonato, padre-padrone del Pci-Pds-Ds ora eurodeputato dopo un ventennio da sindaco. Così Padova torna ad avvelenarsi, come se il tempo si fosse cristallizzato. Per fortuna, la storia restituisce quella stagione tutt’altro che univoca. E la città dell’altro secolo si è «riconciliata», soprattutto grazie a chi ha preservato passioni meno tristi e più critiche.
Un altro «ricordo» di Contarello era passato sotto silenzio: il 17 novembre 2011 aveva già scritto on line di Pecchioli, Folena e Longo, ma anche del faccia a faccia con Calogero prima della deposizione in tribunale. «Arriva con la toga sotto braccio che mi pare un cencio. Mi dice ciao perché ci conosciamo…».
Per la giustizia, valgono sempre le parole di Giovanni Palombarini che ricopriva il ruolo di giudice istruttore: «L’impostazione del pm ha goduto a lungo di forza interna, nell’ideologia della magistratura del tempo prima ancora che nel sistema delle impugnazioni, e sostegni esterni, anche di un partito politico, affidati a strumenti di informazione spesso partecipi di quella impostazione. È ipotizzabile che si possa sviluppare una riflessione su questo dato, che nella sua drammatica oggettività è emerso dalla storia del processo 7 aprile?».
Per «il manifesto», parla l’editoriale di Rossana Rossanda: «Un uomo come Luciano Ferrari Bravo, assolto, fu condannato in primo grado a 14 anni e 5 ne aveva già fatti in carcere. Chi glieli restituirà? Forse “l’Espresso”, che regalò ai lettori la voce del telefonista delle Br a Eleonora Moro, perché fosse riconosciuta come quella di Negri? “Repubblica” che ne titolò festosamente l’arresto come capo delle Br a piena pagina? Questa non è stata soltanto una pagina scandalosa della giustizia italiana, come rilevava da tempo Amnesty International. È stata una storia di silenzi,codardi e coperture. Abbiamo contato sulla punta delle dita giuristi e intellettuali disposti a spendere impegno e riflessione, a trovare abominevole che un’idea politica che si poteva non condividere affatto fosse consegnata non alla lotta politica ma a un trucco giudiziario».
Per la politica, infine, a Padova chiunque può sorridere. Chi aveva l’indice puntato e chi stava alla sbarra, massimi dirigenti del Pci e militanti del Movimento del ‘77, funzionari e portavoce dei centri sociali nella campagna elettorale del 4 marzo si ritrovano insieme nello stesso «contenitore» guidato da un ex magistrato.
Comunque, ben oltre il fantasma del 7 aprile e il desueto ring scenografico, a Padova ci si preoccupa ancora del futuro. Senza più «cassaforti» né rendite di posizione, bisogna preservare dalle lobby sussidiarie al declino almeno la libertà dell’Ateneo e il servizio pubblico nella «fabbrica della salute».
FONTE: Ernesto Milanesi, IL MANIFESTO
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