Nonostante la pioggia battente un fiume di persone ha percorso, ancora una volta, le strade della Val Susa per dire No al Tav e alle altre grandi opere che devastano il paese
Nonostante la pioggia battente un fiume di persone ha percorso, ancora una volta, le strade della Val Susa per dire No al Tav e alle altre grandi opere che devastano il paese. Un fiume colorato, vivace e combattivo, di oltre quindicimila persone provenienti da ogni parte d’Italia e non solo. Davanti a tutti le mamme della Terra dei fuochi e una rappresentanza di terremotati di Amatrice. E uno slogan scritto su cento striscioni e ritmato lungo tutto il corteo: «Contro la Torino-Lione c’eravamo, ci siamo e ci saremo!».
I siti dei grandi giornali – almeno mentre scrivo – ignorano un evento di cui avevano anticipato il probabile insuccesso, evocando divisioni e disaffezione e amplificando le polemiche della destra e del Pd per la partecipazione del vicesindaco di Torino. Invece è stato, ancora una volta, un esempio di democrazia. Da parte di un movimento che da venticinque anni tiene aperta la partita ed è più che mai determinato a vincerla con gli strumenti della politica, della parola, degli argomenti, della ragione. Ma la manifestazione dice qualcosa di più. La consapevolezza che la nuova linea ferroviaria Torino-Lione è un’opera devastante, di grande impatto ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa e decisa in modo autoritario apre la strada a una consapevolezza ulteriore.
Quella secondo cui lo scontro in atto in Val Susa è prima di tutto una grande questione di democrazia. Perché l’esclusione delle popolazioni interessate dai processi decisionali è una costante di tutte le grandi opere e svela l’involuzione neocoloniale delle democrazie, aggravata dalla delega agli apparati (polizia, magistratura e, addirittura, esercito) della gestione delle più rilevanti questioni politiche.
Si spiega così la durata e l’ampiezza della partecipazione, che è anche una forma di resistenza contro la violazione di diritti fondamentali delle persone e delle comunità. Una violazione che non può essere legittimata da un voto di maggioranza. Perché – come ha scritto Gustavo Zagrebelsky – «nessuna votazione, in democrazia chiude definitivamente una partita. La massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti».
È una lezione che dovrebbe essere meditata da quel che resta di una sinistra troppo spesso interessata alle questioni istituzionali più che alle dinamiche reali e profonde del paese.
0 comments