Al cinema. «Libere» di Rossella Schillaci è dedicato alla Resistenza come spazio storico-politico di insorgenza in cui le donne hanno agito un protagonismo cruciale
Dopo il suo ultimo Ninna Nanna Prigioniera, documentario che raccontava l’esperienza della maternità in carcere, l’interesse di Rossella Schillaci per la differenza femminile non si acquieta. Ne dà conto la sua filmografia, puntellata da figure di donne o luoghi in cui se ne possono variamente incontrare i vissuti, anche quando scomodi.
Capace di restituire una quotidianità intima e partecipata, il suo Libere è dedicato alla Resistenza come spazio storico-politico di insorgenza in cui le donne hanno agito un protagonismo cruciale. La ricorrenza del 25 aprile alle porte non è casuale; si tratta infatti di un film di montaggio in cui la regista si è servita proprio dei materiali presenti all’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza; tra giornali dell’epoca, veline, sequenze di girati amatoriali, fino ad arrivare ai biglietti privati e alle minute, emergono le voci imponenti di Joyce Lussu, Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra e Giuliana Gadola Beltrami, partigiane che hanno cercato di avviare a proprio modo il processo di emancipazione all’interno del movimento antifascista.
Il tema non può essere approcciato in generale, bisognerebbe invece soffermarsi sulle fasi e i contesti in cui le donne sono state coinvolte, basterebbe leggere i tanti libri sull’argomento, come quelli della storica Anna Bravo per scoprire che la lotta in cui sono state impegnate le donne durante la resistenza era anzitutto civile ma non rifiutava una costellazione più ampia: dallo scontro armato all’approvvigionamento e collegamento, dalla stampa e propaganda al lavoro più vasto della informazione; e ancora dal Soccorso rosso ai Gruppi di Difesa della Donna.
Il lavoro i Rossella Schillaci ha comportato anni di studio in Archivio, per assemblare poi un materiale che individua – oltre ai temi – delle biografie di eccezione. Attiviste (Gobetti e Lussu furono insignite con la medaglia d’argento al valor militare), tutte scrittrici finissime, si pongono come testimoni che hanno combattuto per rivendicare diritti e autonomia, nel lavoro e in famiglia; e che praticavano la sessualità in assenza di sensi di colpa.
La traiettoria su cui si muove la regista risulta allora importante, oltre che utile da un punto di vista didattico. Certo, maggiore cautela dovrebbe essere utilizzata quando si convocano le categorie di «emancipazione» e «libertà femminile» come se una fosse conseguente all’altra, o addirittura equivalente. Altrettanto dicasi del malinteso che a volte può generarsi tra «femminile» e «femminista»; forse è vero che i termini possono alludersi a vicenda come assumere diverse accezioni – secondo le personali formazioni teoriche e politiche – ma c’è un punto incontrovertibile a ogni latitudine: la biologia non è un destino, dunque dire «femminile» non significa necessariamente dire «femminista».
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