Fotografia. La mostra «La lotta delle donne» con gli scatti di Tano D’Amico, alla Torre del Castello dei vescovi di Luni, Castelnuovo Magra
Non una di meno. E questa volta non è un (bello) slogan che grida al mondo quanto nauseabondo sia il furor patriarcale contro le donne che diventa sfregio e assassinio, cattivo atavismo incistato ora più che mai nelle neo case chiuse dei social media così apparentemente «aperti». Non una di meno sarebbe potuto essere il titolo della mostra di Tano d’Amico, La lotta delle donne, che si inaugura oggi alla Torre del Castello dei vescovi di Luni, promossa dall’Assessorato alla cultura del comune di Castelnuovo Magra, curata dal collettivo Archivi della Resistenza Circolo Edoardo Bassignani, gestore del museo audiovisivo della Resistenza di Fosdinovo, anch’esso partner dell’iniziativa.
Bella sinergia, un museo della Resistenza e le foto di Tano sulle donne: quasi un richiamo a quelle presenze forti e meno celebrate, storiograficamente, che hanno saputo essere decisiva sabbia negli ingranaggi misogini, razzisti e nazifascisti, tra il ’43 e il ’45, e anche prima. Non una di meno, nel senso che questa palpitante raccolta fotografica che ti cerca gli occhi, e ti costringe a guardare e riguardare, e a far provvista di energie vive, non potrebbe tollerare la sottrazione di una sola di queste immagini di donne forti, vere e non allineate. Che raccontano con la forza diretta della realtà, per tratti e scarti e paesaggi, urbani soprattutto, diversi decenni della storia di tutti. Ma dalla parte delle donne, colte dall’obiettivo di Tano che, da vero fotografo dell’innesco della memoria non cerca l’astrattezza oleografica dell’«evento», ma la vita che dà segni da incamerare e memorizzare.
DICONO I CORIFEI della scomparsa delle ideologie (ipotesi che, come raccontava in una vignetta il nostro Biani, ha un preciso e rivoltante sentore d’ideologia invece ben presente e vincente: quella neoliberista che non fa prigionieri) che non è più il tempo delle piazze, delle collettività e dell’azione pubblica. Strana civitas, quella dove i cives possono farsi vedere solo in pixel digitali. I corpi veri danno fastidio, hanno un pressante segno di gravità terrestre, sono imperfetti e bellissimi, nel non essere mai adeguati ai canoni dell’estetica pubblicitaria che fa vendere le merci: specialmente i corpi delle donne. Che quando sono assieme tendono, ancor più fastidiosamente, a mostrare l’evidenza di un pendolo che sfugge al mondo degli uomini: una leggerezza uranica quando ridono e ballano e – grande scandalo – sfidano l’autorità costituita, una tellurica sicurezza e coscienza di essere parte cosciente della terra, e ben ancorate a essa. Umiltà, in fondo, deriva da humus, terra. E una donna che ride e che balla, in un cerchio, magari lasciando a sorridere il bambino su provvisoria sedia dentro il cerchio di un istante bello da vivere, non fuori, è un frammento di dea mediterranea che ritorna a dar consiglio e far lezione di vita.
Il cerchio è una delle foto di Tano D’Amico, è stata scattata in un’occasione che più lontana dalla manualistica etnografica e antropologica non potrebbe essere: un fotogramma del 1972, acchiappa e restituisce la festa delle donne per l’occupazione delle case della Magliana. E ce n’è un’altra tra le foto di donne, infinitamente disturbante, non conciliata e non conciliabile, per chi vede il mondo come una serie di caselle fisse costruite con le scorie tossiche dei ruoli e dei poteri (maschili). È lo scatto di Tano D’Amico che riprende, dal basso, le detenute in rivolta sui tetti di Rebibbia, nel 1973.
L’EFFETTO, MAESTOSO e irriverente assieme, è quello di statue su un frontone di tempio greco. Nessuna pruderie possibile, per quei corpi diversi perlopiù in mutande e reggiseno, i volti sorridenti, a bersi un sole ritrovato. E la grazia del saluto alla gente della donna sulla sinistra ha la fatata leggerezza di un movimento di Carla Fracci. Lo fanno notare Simona Mussini e Alessio Giannanti, che firmano la parte più densa dell’introduzione del catalogo edito da ETS. L’altro intervento che troverete è quello di Maurizio Maggiani, scrittore di queste terre della mostra, di queste storie e di queste donne. Racconta, per gli scatti in bianco e nero di Tano: «Guarderanno e vedranno che siamo avvenuti, le vite non sono oggetti».
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