I membri del tribunale speciale fascista dopo la fine della guerra furono amnistiati a tempo di record
Il Tribunale speciale del fascismo entrò in funzione il 1 febbraio 1927 e — su segnalazione dell’Organizzazione volontaria per la repressione dell’antifascismo, nota come Ovra — continuò ad «amministrare la giustizia» contro gli oppositori del regime fino al 25 luglio del 1943, allorché Benito Mussolini fu deposto (anche se qualcosa di sostanzialmente identico sopravvisse poi nella Repubblica sociale italiana). Di quel mostro giuridico si occupa Mimmo Franzinelli in Il tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1945) , in procinto di essere pubblicato da Mondadori. Non si può dire che il Tribunale di Mussolini — osserva Franzinelli — sia stato spietato: nel primo decennio condannò 3.112 imputati contro 7.581 prosciolti; pronunciò settantasei condanne a morte delle quali ne saranno eseguite cinquantotto, in gran parte contro i cosiddetti «terroristi slavi», come già ben documentato da Marina Cattaruzza nel saggio L’Italia e il confine orientale (il Mulino) e da Marta Verginella nel libro Il confine degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena (Donzelli).
Franzinelli è rimasto colpito dalla rapidità con la quale, dopo la fine della guerra, tutti i giudici che avevano fatto parte di questo organismo furono amnistiati (a tempo di record, in pochissimi giorni, il sostituto procuratore generale Michele Isgrò, il procuratore generale Carlo Fallace e persino il presidente del Tribunale speciale della Rsi, Mario Griffini). Ciro Verdiani ex capo della zona Ovra di Zagabria, che di antifascisti al Tribunale speciale della Dalmazia ne aveva consegnati moltissimi, nell’Italia liberata fu addirittura nominato questore della Roma liberata. Vincenzo Cerosino — pubblico accusatore nel processo di Verona contro Galeazzo Ciano e gli altri «congiurati» del luglio 1943, nonché artefice del cosiddetto «processo degli ammiragli» che aveva portato alla fucilazione di Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, promotori della resistenza antitedesca nell’Egeo — è prosciolto a soli quattro giorni dalla promulgazione della legge di amnistia voluta da Palmiro Togliatti. E qui si approfondisce quel che già scrissero Romano Canosa in Storia dell’epurazione in Italia (Baldini&Castoldi) e Hans Woller in I conti con il fascismo (il Mulino) sulla mancanza di pur minimi criteri di severità nell’Italia repubblicana quando giunse il momento di fare i conti con coloro che si erano macchiati di gravi compromissioni con il regime mussoliniano.
I condannati dal Tribunale speciale, invece, nell’Italia postfascista furono trattati, scrive Franzinelli, «come dei sovversivi». Sovversivi che avevano meritato le pene loro inflitte. L’impiegato milanese Giovanni Valvassori, al quale erano stati comminati diciotto anni di carcere per espatrio clandestino e per non essersi poi piegato al cospetto dei giudici, dovrà attendere il 2 marzo del 1975 prima di essere «amnistiato con rinunzia dell’Erario al recupero delle spese di giustizia». Il meccanico romano Remo La Valle, condannato anche lui a diciotto anni per aver «rivelato ai francesi notizie sul motore Alfa 136», fu graziato nel 1944 ai tempi della Rsi, per essere poi sorprendentemente riarrestato nell’Italia repubblicana (maggio del 1949), perché doveva ancora scontare dieci mesi di reclusione.
Qualche imputato nel frattempo era morto: è il caso di Agnello Giannetti, condannato a cinque anni perché ascoltava Radio Londra; la vedova chiese la revisione della condanna ma la Corte d’appello di Roma (nel 1961) e la Cassazione (nel 1962) respinsero l’istanza. Il napoletano Giuseppe Martucci condannato a sei anni nel 1942 per aver pronunciato in una bottiglieria di Genova «parole disfattiste» («Speriamo che la guerra finisca presto», era la frase esatta) si vide respingere, nel 1951, la richiesta di essere amnistiato perché, sostenne il Tribunale militare territoriale di Roma, «non risulta che il reato sia stato commesso per lottare contro il fascismo».
Primo presidente del Tribunale speciale sarà nel 1927 il generale di corpo d’armata Carlo Sanna, che nel 1919 era stato mandato dal governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando a fronteggiare le manifestazioni operaie torinesi. Devoto a Mussolini, ma digiuno di studi giuridici, Sanna resterà in carica fino all’estate del 1928, quando morirà di infarto. Gli succede il giovanissimo Guido Cristini (ha solo trentatré anni). Durante la guerra è stato tenente dei bersaglieri, ha ottenuto una medaglia d’argento al valor militare e ha avuto tra i suoi soldati il caporale Benito Mussolini. Il nuovo incarico gli consente di entrare, di diritto, nel Gran consiglio del fascismo «dove è tra i gerarchi più loquaci». Il successo, scrive Franzinelli, «gli dà alla testa, si sente un pezzo grosso e fa il gradasso esigendo ossequi servili». È molto avido. Oltre a potenziare lo studio legale che ha a Roma, fa incetta di incarichi un po’ dappertutto. Particolarmente in Abruzzo (è nato in un paese vicino a Chieti, Guardiagrele). Mussolini è costretto a intervenire: il 12 ottobre 1929 gli manda uno stringato biglietto: «Data la vostra carica di presidente del Tribunale speciale, ritengo opportuno che rassegniate le dimissioni da quella di presidente Cassa di Risparmio degli Abruzzi». Lui esegue, ma poi, assieme ai suoi, continua ad accumulare fortune. Il prefetto di Chieti, pur con toni cauti, avverte la segreteria del Duce che i famigliari di Cristini «hanno alcune volte assunto atteggiamenti che andavano moderati, come io ora insistentemente vado facendo, con esito, sembrami, buono». Nel 1930 un negoziante di mobili chiede alla segreteria del capo del governo di imporre a Cristini di pagare gli arredi commissionati per una sua villa.
Ma cosa ha di speciale Cristini da potersi consentire una tale improntitudine? Al processo contro Cesare Rossi, coinvolto nell’uccisione di Giacomo Matteotti, ha evitato, minacciandolo di morte, che l’imputato accennasse al ruolo di Mussolini in quel delitto. Con queste parole, a fine processo, si rivolge al Duce: «Nonostante tutto il Tribunale non lo ha condannato alla fucilazione perché in udienza Cesare Rossi non è riuscito neanche a guadagnarsi la pena di morte». Il Tribunale, prosegue Cristini, «ha preferito eliminarlo silenziosamente con trenta anni di reclusione e risparmiare al Regime alcune pallottole di moschetto».
Mussolini gli è grato. Cristini come presidente del Tribunale speciale ottiene uno spazioso appartamento sul lungotevere Michelangelo e un altrettanto lussuoso appartamento sul lungotevere Sanzio. La presidenza del Consiglio, del resto, fornisce a tutti i giudici del Tribunale speciale un’automobile, la tessera di libera circolazione ferroviaria e paga a ognuno di loro ragguardevoli indennità di carica. Il famelico Cristini riceve settemila lire al mese, ma pretende l’equiparazione ai presidenti della Corte dei conti, della Cassazione e del Consiglio di Stato. Assedia con lettere e telefonate la segreteria di Mussolini affinché si dia un colpo di acceleratore riguardo alla «nota questione finanziaria che mi interessa nella mia qualità di presidente del Tribunale speciale». E il capo del fascismo lo accontenta facendogli assegnare, per il 1929, un bonus di cinquantamila lire. Una cifra spropositata per un lavoro assai poco faticoso.
Un informatore, Francesco Gargano, riferisce di una conversazione con il giudice Cersosimo che parla di «sperpero di denaro» e di come le sedute d’istruttoria non durassero più di mezz’ora dal momento che consistevano solo nella lettura, «tra l’indifferenza generale», di una «relazione già scritta in precedenza». «Se il Duce sapesse» che cosa è davvero il Tribunale Speciale, «ci caccerebbe tutti via», avrebbe ammesso Cersosimo.
Un rapporto dell’informatore Luigi Filippi, ex tenente colonnello dei carabinieri, parla di indennità di trasferta e di trasporto percepite indebitamente, grazie a false dichiarazioni di servizio. Tutto il personale del Tribunale, prosegue Filippi, «fa il proprio comodo». Non esiste «alcun controllo per l’orario d’ufficio». Gli ufficiali della Milizia che lavorano per il Tribunale «partono in licenza con due o tre giorni di anticipo e fanno ritorno quando vogliono… Nelle ore di lavoro vanno in giro da un ufficio all’altro per parlare, criticare e fare pettegolezzi». Filippi cita il capitano dei carabinieri Giorgi, che non va mai in ufficio e fa quello che gli pare, ricevendo a domicilio «ogni ben di Dio, financo quarti di vitelline da latte» da lui fatte «espressamente macellare», per poi donarne parte anche a Cristini. Però fuori d’Italia l’appartenenza al Tribunale speciale doveva essere considerata poco onorevole. In merito a un documento da rilasciare a Filippo Maria Gauttieri, il capo della polizia prega il questore di Roma di «evitare nel passaporto qualsiasi relativa alla carica di vice presidente del Tribunale speciale».
Qualche volta i giudici e lo stesso presidente eccedono. È il caso ancora una volta di Cristini che, dopo la soddisfacente (per Mussolini) gestione del «caso Rossi», prova a ripetere l’impresa. L’opportunità gliela offre il processo postumo ai complici di Anteo Zamboni, il quindicenne bolognese linciato nel 1926 per aver attentato alla vita del Duce. Confiderà poi al gerarca Leandro Arpinati di essere riuscito a far condannare i familiari di Zamboni, pur estranei all’ affaire , per compiacere Mussolini. Arpinati ne parla con lo stesso Mussolini e questi reagisce immediatamente mandando a Cristini un altro sintetico biglietto: «Invito V.E. a rassegnare le dimissioni dalla carica di Presidente del Tribunale speciale». È il 27 novembre del 1932. Cristini chiede udienza a Mussolini, gli viene negata. Viene retrocesso a vicepresidente della Corporazione vetro e ceramica. Accetta. Ma continuerà a fare affari. Indisturbato.
Il suo prestigioso incarico nel frattempo passa al conte livornese Antonino Tringali Casanuova, medaglia di bronzo al valore nella Grande guerra, partecipe alla marcia su Roma, poi per un decennio, dal 1922 al 1932, sindaco (e poi podestà) di Castagneto Carducci. Abilissimo, Tringali Casanuova si giova dell’ottimo rapporto con il conterraneo Guido Buffarini Guidi, potentissimo sottosegretario al ministero dell’Interno. Sarà, Tringali, sempre al fianco di Mussolini. Anche — come ben racconta Gianfranco Bianchi in 25 luglio crollo di un regime (Mursia) — nella seduta del Gran consiglio del 1943 durante la quale prenderà più volte la parola per difendere il Duce. Che lo nominerà poi ministro di Grazia e giustizia nella Repubblica sociale (incarico che, però, Tringali terrà per poche settimane dal momento che, a fine ottobre 1943, sarà stroncato da un infarto).
Così, alla fine della guerra, Cristini sarà l’unico sopravvissuto dei tre presidenti in carica tra il 1927 e il 1943. Che ne sarà di lui? Dopo essere stato latitante per due anni, riuscirà anche lui a beneficiare del provvedimento di amnistia. Fausto Gullo — il comunista che aveva preso il posto di Togliatti alla guida del ministero di Giustizia — se ne disse scandalizzato e sostenne che a personaggi come Cristini la legge non avrebbe dovuto essere applicata in modo così liberale. Il socialista Pietro Nenni (come si evince dal suo Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956 edito da Sugarco) avrebbe addirittura voluto porre in stato di accusa la Cassazione che aveva deciso a favore di Cristini. Ma non ci fu niente da fare. A questo punto Cristini ebbe l’idea di riprendere ad esercitare la professione forense e chiese una nuova iscrizione all’ordine degli avvocati. Ma dal Consiglio nazionale forense gli giunse un secco no. L’impulso a tale diniego giunse dal presidente di quel Consiglio: Piero Calamandrei. E fu questo finché visse (1979), scrive Franzinelli, l’unico castigo che ebbe per essere stato presidente del Tribunale speciale di Mussolini.
Paolo Mieli
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