Intervista. Parla l’artista polacco Horst Hoheisel, in Italia per la mostra «Arte in memoria», alla Sinagoga di Ostia antica. «Non esiste nessuna metafora possibile per rappresentare l’Olocausto»
All’apparenza quello di Horst Hoheisel (Poznan1944, vive tra Kassel e Berlino) sembra un lavoro minimale, un intervento quasi invisibile. Eppure, lui che spesso opera in assenza, questa volta si è impegnato nella Sinagoga di Ostia antica per la mostra Arte in memoria 9 (a cura di Adachiara Zevi) come fosse un demiurgo appassionato. E ha deciso di tirare fuori, a modo suo, testimonianze e immagini intrappolate tra le pietre vissute. «Voglio sentire la storia che si cela dietro queste pietre che risalgono al I secolo – spiega – Durante la mia visita a Ostia nell’aprile scorso, alcuni muri erano parzialmente crollati. Pietre rotte erano sparse ovunque. Il tempo si prende le sue rivincite e i muri raccontano storie di degrado. Salvarli è diventato un obiettivo. Il mio contributo è quello di sollecitare il restauro iniziandolo io stesso. Mentre questi vecchi mattoni passeranno per le mie mani, registrerò le memorie che evocano in me».
La risposta alla sollecitazione di un particolare, un oggetto, una architettura, un arredo urbano che racchiude la grande storia è una costante concettuale del metodo artistico di Horst Hoheisel, capace di rovesciare – interrandola – una fontana distrutta dai nazisti per suggerire ai passanti l’incontro con la potenza di un anti-monumento. O anche di proporre la deflagrazione spettacolare della berlinese Porta di Brandeburgo per celebrare la cancellazione di un popolo con l’adeguata devastazione di un luogo simbolico: la polvere delle pietre sarebbe stata sparsa, mentre lastre di granito avrebbero ricoperto il piazzale, offrendo lapidi urbane e desertificando l’ambiente. Naturalmente, quel suo provocatorio progetto non ebbe seguito (bisognava immaginare un monumento per gli ebrei assassinati in Europa), ma per Hoheisel rimase intatta la radicalità della sua proposta.
In Italia, a Ostia, l’artista polacco ha scelto di recuperare la leggibilità della Sinagoga, nell’Arca dove si custodivano i libri e nella scalinata sul lato del pozzo romano, da cui si accedeva dentro lo spazio sacro.
Horst Hoheisel al lavoro ad Ostia Antica
La maggior parte delle sue opere affronta la memoria collettiva in forma negativa. A suo parere, ogni ricordo è una possibilità di conflitto. Perché?
La memoria è un processo dinamico e continuo. Racconta molto di noi e del nostro tempo e assai meno della storia in sé. Ciò che mettiamo in atto nei lavori che intraprendono la strada della memoria rischia di essere sbagliato. Non esistono metafore per l’Olocausto. L’unica cosa che possono fare gli artisti è esercitare al minimo l’errore. Ogni epoca, ogni società crea la propria memoria.
In passato, lei non ha voluto ripristinare una fontana simbolica come monumento ebraico, ma ha preferito affondarla sotto terra. Ha proposto anche di far saltare la Porta di Brandeburgo… Pensa forse che un monumento sia una inutile eredità?
Questi monumenti appartengono al XIX secolo. La nostra epoca non può riconsiderarli tali e quali. Un Memoriale edificato in marmo e bronzo non fa che congelare la possibilità di rievocazione, è come se mettesse una pietra definitiva sul passato. È il rischio che corre il Memoriale dell’Olocausto a Berlino: abbiamo questo grande monumento nel centro della città, quindi possiamo dimenticare quel periodo. Consente di far ripartire, dopo la riunificazione, una nuova era accompagnata da un sentimento nazionale: l’identità di una storia tedesca ininterrotta. Ma dal momento che proprio con l’Olocausto quell’identità tedesca si è spezzata, anche in futuro dobbiamo continuare a convivere con questa «spaccatura».
Nonostante la memoria si manifesti per lei solo «in assenza», è noto il suo impegno nella raccolta di quella del Sud America, questa volta «in presenza»…
Quando ero uno scienziato forestale, ho lavorato a contatto con l’ecosistema di una foresta pluviale tropicale, in Sud America. Ho vissuto due anni con una tribù di indigeni Yanomami. Da quel momento, mi sono innamorato dei sudamericani… Adesso, come artista, sono tornato nelle capitali e lavoro insieme ad amici provenienti da quei paesi. Le dittature, però, non rappresentano la mia storia. Allora ho cercato di essere un catalizzatore, qualcuno che dà l’avvio a progetti sulla memoria: il vero lavoro è da attribuire a tutti i partecipanti dei diversi luoghi. Faccio un esempio: Quimica de la Memoria. Ho chiesto alle persone di portare dalle loro abitazioni oggetti che hanno avuto un collegamento con la dittatura militare in Argentina. Ho ottenuto una raccolta di tutte le cose della vita quotidiana. Ogni oggetto è stato etichettato per spiegare la relazione con la storia, e poi la mostra viaggia. Nessuno ricorda più come è iniziato questo processo!
Tornando alla Shoah: il problema oggi è che i sopravvissuti cominciano a sparire. Per ragioni anagrafiche, non c’è più quasi nessuno che ci possa raccontare l’ esperienza dell’orrore attraverso le proprie emozioni. Cosa ne pensa di questo cambiamento: è un pericoloso vuoto?
Quello che stiamo vivendo è un periodo molto importante. L’Olocausto comincia a entrare nella storia e nei libri scolastici senza più i suoi testimoni. Così, storici e autori di manuali hanno un’enorme responsabilità sulle spalle. Naturalmente, fioriscono interessi e interpretazioni dal proprio punto di vista e a proprio vantaggio. Gli storici non sono mai neutrali!
Potrebbe dirci qualcosa sul suo lavoro in Italia, il progetto per «Arte in memoria»?
Il sito della vecchia Sinagoga non ha bisogno dell’arte. Possiede un suo magnetismo particolare, ma necessita di un restauro. La mia opera, quindi, è semplicemente il ripristino e la conservazione – insieme al team dei restauratori di Ostia Antica – di una piccola porzione della Sinagoga stessa.
All’interno dei muri restaurati, vengono poste alcune parole, scritte su piccole targhe d’argento, che amici da tutto il mondo – ma anche la mia stessa famiglia – hanno inviato dopo aver visitato il sito tramite Internet. Ognuno una sola parola. E nessuno può leggerla. Ma c’è un’etichetta che chiede ai visitatori della Sinagoga di guardarsi intorno e pensare alla propria, di parola.
SCHEDA
Presso la Sinagoga di Ostia Antica si è inaugurata la nona edizione di Arte in memoria, la biennale internazionale ideata e curata da Adachiara Zevi e organizzata dall’Associazione Culturale Arteinmemoria (visitabile per il pubblico fino al prossimo 18 aprile).
Gli artisti invitati a intervenire quest’anno sono: Sara Enrico che, alla scelta di lavorare con alcune pratiche artigianali legate alla tessitura unisce l’uso di fibre artificiali moderne; Horst Hoheisel, che partecipa con il suo consolidamento e restauro di alcune parti della sinagoga, registrando le memorie che le pietre stesse evocano in lui; Ariel Schlesinger con una installazione «after» Demnig, un omaggio agli Stolpersteine che traduce però in rovine, attraverso differenti manipolazioni; Luca Vitone, che propone un progetto sul valore simbolico delle pietre.
La mostra nella Sinagoga di Ostia Antica, la più vecchia d’Occidente (I sec. d.C.) prende avvio dall’iniziativa promossa dalla Sinagoga di Stommeln, in provincia di Colonia, sopravvissuta al nazismo: lì, dal 1990, ogni anno un artista è invitato a creare un’opera per il luogo.
Alcuni artisti (ospiti delle scorse biennali) hanno donato i loro lavori, lasciandoli in mezzo alle rovine, nel sito archeologico. Tra questi, nel 2002 Sol LeWitt, poi Gal Weinstein, Pedro Cabrita Reis, Liliana Moro (Stella polare, 2011), Michael Rakowitz. Al termine della precedente edizione, è stata la volta di Stih &Schnock e della loro Sinergia su supporto di metallo.
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