Il fantasma del comunismo

Quest’anno se ne festeggiano 100 anni, eppure non è la prima volta che viene celebrato un anniversario del cosiddetto “Ottobre”

Quest’anno se ne festeggiano 100 anni, eppure non è la prima volta che viene celebrato un anniversario del cosiddetto “Ottobre” – cioè la ricorrenza che ricorda la conquista del Palazzo d’Inverno con cui i Bolscevichi presero il potere in Russia la notte tra il 7 e l’8 Novembre 1917 (il 25/26 Ottobre del calendario giuliano allora in uso) e instaurarono il primo potere comunista della storia. La prima celebrazione, e probabilmente quella che ancor’oggi si può considerare come la più famosa, avvenne già tre anni dopo, nel 1920. Lo stato sovietico volle allora celebrare in grande stile l’evento inaugurale di una nuova epoca della Storia e allestì di fronte al vero Palazzo d’Inverno uno dei più grandi happening teatrali di massa che siano mai stati fatti. 125 ballerini, 100 circensi, 1750 comparse, 260 attori secondari e 150 assistenti – oltre a tank, blindati e al celebre incrociatore Aurora – “ricrearono” a soli tre anni di distanza l’evento culmine della rivoluzione sovietica di fronte a 100mila persone in delirio. Non è difficile immaginare l’entusiasmo e la confusione che poteva creare una “rappresentazione” a cui presero parte molti dei protagonisti che nel “vero” ‘17 erano effettivamente fuori dal Palazzo d’Inverno con i fucili.

Che il confine tra realtà e finzione non fosse così chiaro lo dice anche un dettaglio targicomico: si dice che morirono più persone per il re-enactment del 1920 di quante non ne morirono effettivamente nell’evento rivoluzionario del 1917 (dato che in realtà il governo provvisorio di Kerenskij abbandonò il palazzo senza quasi sparare un colpo). Ancora oggi molti libri di storia riportano la foto della rappresentazione del ‘20 come la foto autentica che documenta l’evento dell’Ottobre. Insomma, è come se la presa del Palazzo d’Inverno fosse nata già subito come un rappresentazione. Il ‘17 ha avuto già da subito l’aspetto di un fantasma.

È forse per quello che la storia di 100 anni di comunismo è stata costellata da così tanti fantasmi: già dal “fantasma che si aggira per l’Europa” con cui si apre il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engles, al ruolo cruciale che ebbero le “ombre cinematografiche” – come ricordava Chris Marker – nell’esperienza sovietica, fino agli “spettri” di Marx di cui scrisse Derrida nel 1993. Ma furono spettrali per tantissimi aspetti anche i regimi del socialismo burocratico, i processi-farsa staliniani degli anni Quaranta, così come diventarono letteralmente degli spettri le migliaia di oppositori politici cancellati fisicamente e simbolicamente dalla storia sovietica. È allora particolarmente appropriato che anche oggi, a distanza di 100 anni, si celebrino i 100 dell’Ottobre con un manifesto dove un piccolo fantasma che abbraccia falce e martello vola in avanti verso il futuro. Communism17, che si è conclusa ieri mattina a Roma dopo 5 intensissimi giorni di dibattiti, mostre, conferenze, workshop, installazioni e performance, ha richiamato a Roma migliaia di persone tra la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Esc Atelier (una delle più straordinarie esperienze autogestite di produzione culturale e politica attualmente in circolazione in Italia) e ha provato a ragionare e a rilanciare la più inattuale delle parole politiche oggi in circolazione.

Alcuni forse si stupirebbero di vedere ricercatori e attivisti di mezza Europa e non solo venire appositamente a Roma a discutere con pensatori come Saskia Sassen, Sandro Mezzadra, Étienne Balibar, Bruno Bosteels, Luciana Castellina, Jodi Dean, Peter Thomas, Bifo, Michael Hardt, Augusto Illuminati, Christian Marazzi, Morgane Merteuil, Antonio Negri, Maria Luisa Boccia, Alexei Penzin, Jacques Rancière, Enzo Traverso, Riccardo Bellofiore, Mario Tronti, Paolo Virno, Slavoj Žižek e molti altri: ma il primo paradosso di questa iniziativa è stato proprio questo. La parola comunismo ben lungi dal richiamare un piccolo gruppo carbonaro di nostalgici, è stata invece in grado in queste giornate romane di radunare un’enorme comunità la cui diversità non risiedeva solo nella lingua, ma anche e soprattutto nei propri riferimenti culturali e d’immaginario. Il comunismo del 2017 non dimostra soltanto di essere tutt’altro che marginale, ma di essere tanto ampio da abbracciare un’enorme pluralità e un enorme spettro di differenze. Nel bene e nel male.

In questi giorni romani infatti, la parola comunismo più che farsi forte di alcune precise esperienze storiche è stata declinata soprattutto nella sua capacità di parlare al presente. L’ha ricordato Jacques Rancière, per il quale “comunismo” vuol dire letteralmente creare uno spazio “comune”, e dunque scontrarsi con quelli che sono i sistemi di disciplinamento che assegnano modi e titolarità di appartenenza. La politica sarà allora in questo senso soprattutto estetica, perché dovrebbe essere capace di creare delle nuove modalità di sentire, di vedere, di percepire il mondo che ci sta attorno. Le lotte che hanno costellato gli ultimi due secoli di storia, così come alcune invenzioni artistiche, letterarie o cinematografiche sono state capaci secondo Rancière di creare un nuovo “comune” tramite un diverso regime della sensibilità (ed è in questo senso che accanto a Communism 17 è stata organizzata una mostra chiamata Sensibile Comune. Le opere vive, che ha sviluppato una riflessione su questo “comunismo del sensibile”).

 

Tuttavia il rivoluzionamento dei modi del nostro stare al mondo non passa solo attraverso la sensibilità e l’estetica, ma anche attraverso il lavoro, e la produzione e riproduzione sociale. Passa attraverso la complessa sedimentazione dei corpi intermedi della società (Peter Thomas), così come lo Stato (Bosteels, Mezzadra) e la produzione del corpo (Merteuil). È allora davvero possibile richiamarsi a una parola così ingombrante e così pregna di storia per leggere i conflitti della politica contemporanea? Molti interventi hanno riconosciuto una cosa: che nonostante spesso l’ideologia contemporanea si continui a compiacere della fine delle ideologie del Novecento (e di solito la patente di “ideologia” viene concessa solo a chi ha messo in discussione gli attuali rapporti sociali), il discorso dell’inattualità del comunismo andrebbe innanzitutto rovesciato: perché è soprattutto la parola capitalismo che in questi anni si è trovata drammaticamente in crisi. Non soltanto per una devastante crisi economica che ha peggiorato le condizioni dei lavoratori di mezzo mondo con un meccanismo di ripartizione della ricchezza che è sempre più diseguale; ma anche e soprattutto perché sembra che il capitalismo – che si è sempre fatto forte di una capacità camaleontica di continua trasformazione di se stesso – si sia negli ultimi anni inceppato: non è più in grado di generare investimenti e innovazione tecnologica se non attraverso bolle speculative e finanziarie sempre più squilibrate. Nel contempo – come ha ricordato Bifo nel suo intervento – l’esperienza di 8 anni di amministrazione Obama (ma la stessa cosa la si potrebbe dire di Hollande, Renzi etc.) mostra sempre di più come il fronte social-democratico e quello cristiano-democratico o conservatore stiano sempre più convergendo verso una medesima gestione dell’attuale fase di austerity.

Ed è infatti particolarmente significativo che tutte queste riflessioni siano avvenute proprio mentre Trump si stava insediando alla Casa Bianca (con le oceaniche manifestazioni di protesta che subito si sono riversate nelle strade delle maggiori città americane), così come in questi stessi mesi l’implosione dell’area euro, così come Erdoğan in Turchia, Modi in India, Orbán in Ungheria, al-Sisi in Egitto stanno creando delle condizioni per una sempre più preoccupante fascistizzazione dell’attuale fase politica globale (che vede nell’ascesa dei nazionalismi europei una delle sue forme più preoccupanti).

È di fronte a questa falsa alternativa tra un capitalismo in crisi e una risposta di tipo neo-sovranista e neo-nazionale che una nuova pratica comunista sembra trovare la sua più convincente espressione d’attualità. Cioè, come ha ricordato Sandro Mezzadra in uno degli interventi più convincenti dell’evento, con la consapevolezza che di fronte a delle contraddizioni tanto epocali e tanto profonde non sia più possibile una risposta di tipo difensivo, ma che ci si debba porre la questione della trasformazione radicale dell’esistente.

Tuttavia i nodi da sciogliere sono tanti. Su tutti, il rapporto con il potere, con lo Stato, e con un capitale che ha moltissimi livelli di intermediazioni globali e che mette sempre più in difficoltà la capacità di risposta del sindacato (i cui successi, in alcuni paesi come gli Stati Uniti, sono comunque in ascesa, come ha ricordato Jodi Dean). Communism 17 non ha voluto certo dare delle risposte in questo senso, ma soprattutto porre delle domande: in particolare su che cosa voglia dire un “partito” all’altezza del capitalismo del XXI secolo, consci dei limiti che questa forma politica ha avuto nel Novecento. Come ha detto in altra sede Guido Mazzoni, la contraddizione dell’esperienza rivoluzionaria russa si è avuta quando la democrazia consigliare dei soviet si è dovuta confrontare con la sua capacità di innestarsi nella complessità e nell’ampiezza del territorio russo, quando cioè si è passati dai consigli di fabbrica alla collettivizzazione dell’agricoltura. È ancora oggi una delle contraddizioni più evidenti del contemporaneo, e lo si vede a partire dai dati impressionanti che mostrano la classe operaia delle provincie sempre più vicina alle posizioni delle destre nazionalistiche. Se il fantasma del comunismo sarà capace di aggirarsi anche per le provincie del pianeta, è la grande scommessa per una politica che voglia porsi l’obiettivo della trasformazione dell’esistente.

 Fonte: Doppiozero

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